La seconda norma di maestra
Non ho mai capito perché mi attirasse così tanto quel mobile nero appoggiato al muro, proprio di fronte all’ingresso; era un vecchio pianoforte che nessuno usava. Qualche volta, mentre le suore dell’asilo erano distratte, mi avvicinavo, e mi arrampicavo sull’altissimo sgabello, aprivo con tutte le forze il pesantissimo coperchio che nascondeva quei tasti bianchi e neri, e goffamente suonavo qualche nota con le mie piccole dita. Un secondo dopo, le tre suore presenti mi sgridavano in coro, avvicinandosi a me, io, seppure sopra lo sgabello, vedevo quelle enormi figure nere, che evidentemente non mi volevano bene; perché mi impedivano di suonare?
La più comprensiva era la madre superiora, ma lei non era quasi mai presente. Allora mi rassegnavo e mi sedevo sul grande tappeto azzurro al centro della stanza, e facevo compagnia agli altri bambini, che per lo più giocavano con gli antenati delle moderne costruzioni. Erano dei semplici pezzi di legno squadrati, non tutti erano colorati, raffiguravano una casa, un triangolo, una sfera, dei cerchi, dei cubi, c’era anche un trenino, che però doveva essere completato con altri pezzi sparsi sul tappeto. Ciascun bimbo costruiva qualcosa, ma quelle forme non bastavano mai, e qualche volta si bisticciava per il loro possesso. Qualche bambino piangeva, ed io, nell’impossibilità di portare a termine il mio progetto costruttivo, pensavo subito ad uno più realizzabile; già allora, come adesso, cercavo di risolvere le controversie in modo soffice, senza scontri.
La più comprensiva era la madre superiora, ma lei non era quasi mai presente. Allora mi rassegnavo e mi sedevo sul grande tappeto azzurro al centro della stanza, e facevo compagnia agli altri bambini, che per lo più giocavano con gli antenati delle moderne costruzioni. Erano dei semplici pezzi di legno squadrati, non tutti erano colorati, raffiguravano una casa, un triangolo, una sfera, dei cerchi, dei cubi, c’era anche un trenino, che però doveva essere completato con altri pezzi sparsi sul tappeto. Ciascun bimbo costruiva qualcosa, ma quelle forme non bastavano mai, e qualche volta si bisticciava per il loro possesso. Qualche bambino piangeva, ed io, nell’impossibilità di portare a termine il mio progetto costruttivo, pensavo subito ad uno più realizzabile; già allora, come adesso, cercavo di risolvere le controversie in modo soffice, senza scontri.
Dopo aver abbandonato quel campo di battaglia, andavo verso un tavolo attorno al quale erano sistemate una dozzina di minuscole sedie, quasi sempre inutilizzate. Gettati sul tavolo, alla rinfusa, c’erano fogli, matite e colori, e là sì, potevo dar vita al mio progetto, un po’ vago, per la verità. E accavallavo, le une sulle altre, delle figure di tutti i colori. Non so cosa abbia pensato una delle suore, quando mi ha visto disegnare un paesaggio in riva ad un fiume, con delle piante qua e là, l’immancabile casetta, e tra il celeste del cielo, tra le nuvole, faceva la sua comparsa, come in un quadro surrealista, una serie di tasti bianchi e neri, messi là, in volo, come un aeroplano. Chissà, forse avrà pensato che non avevo il cervello del tutto a posto, o che avessi una qualche ossessione.
Mi colpiva favorevolmente il suono di un altro pianoforte, che sentivo spesso dal cortile della mia casa in stile campidanese, note che venivano dall’abitazione di fronte, nella quale abitava una famiglia molto legata alla mia. Proprio di fronte al nostro portone di agricoltori, c’era un negozio di stoffe, l’unico in contrada di sorres, il titolare era un uomo dall’aspetto severo, che però, al momento opportuno, con quei suoi baffetti bianchi, sapeva rendersi simpatico, come pure sua moglie, maestra elementare. Avevano un figlio ed una figlia, lui aiutava il padre in negozio, mentre lei abitava in continente, e faceva parte di una prestigiosa orchestra sinfonica. Quando tornava a casa a trovare i suoi, si esercitava spesso al piano, sistemato in soggiorno.
Spesso mi trovavo in negozio, a parlare col foglio del titolare, e quando sentivo la musica, gli chiedevo se potevo andare in soggiorno a far compagnia alla sorella. Lei, una volta terminati gli esercizi, come per premiare la mia attenzione, suonava e cantava delle canzoncine per bambini, che ricordo tutt’ora a memoria.
Accanto al pianoforte faceva bella mostra di sé un oggetto che ben poche famiglie al mio paese possedeva a quei tempi: un televisore! A volte mi invitavano a cena, poi tutti a seguire ”lascia o raddoppia”, io non ero propriamente un appassionato di quel programma, che però era preceduto dal “carosello”, quello sì che mi interessava. Infatti, terminato il mio programma preferito, restavo ancora dieci minuti, poi rientravo a casa, dove mi aspettava mia madre con un grande pancione. Mi dicevano che, a breve, sarebbe arrivato un fratellino, e io a fantasticare su cosa avrei potuto insegnargli, dall’alto della mia esperienza.
Mio padre era tutto il giorno sui campi, di mattina non riuscivo mai a vederlo, e aspettavo il suo ritorno all’imbrunire. Appena rientrato, faceva sempre gli stessi gesti: un bacio a mia mamma, poi mi sollevava di peso, e il secondo bacio era per me. La domenica era un giorno speciale: non più minestrone o pastasciutta, ma una buona minestra di pollo col ripieno, "su preimentu", di cui andavo particolarmente ghiotto. Mia madre, dopo aver fatto bollire il pollo, lo metteva in forno con delle spezie. Ciò che non mancava mai era la frutta e la verdura, così come il pane fatto in casa. Il pane, appena sfornato era buonissimo, poi diventava sempre più secco, e lo si abbrustoliva al caminetto con un po’ d’olio e aglio, oppure con un saporito patè di olive. E lo schioppettare delle castagne al fuoco mi metteva allegria. I dialoghi con mio padre avvenivano fianco a fianco, soprattutto di fronte all’allegra fiamma del caminetto, quante cose mi ha insegnato al tepore di quel focolare!
La domenica era il giorno dell’assoluto riposo per lui, dedicava il suo tempo agli amici e a mia madre, che ormai era prossima a mettere al mondo il neonato, il che avvenne, come era usanza allora, in casa, con uno stuolo di donne e la levatrice, mentre i maschi erano rigorosamente tenuti fuori dalle grandi manovre. E quando mi presentarono la stupenda sorellina, mi emozionai, e il giorno del rientro all’asilo, comunicai con gioia a tutti il lieto evento. Da quel giorno, nei miei capolavori artistici, accanto a monti, fiumi, e tastiere in volo, in primo piano c’era quasi sempre lei.
Intanto la sorellina cresceva sempre più bella, e quando veniva a trovarci qualche parente o conoscente, ricevevo la proposta di uno scambio:
“Se mi dai la sorellina ti do una caramella”.
Stavo un po’ a pensare e concludevo che una caramella era troppo poco, almeno tre. Non so quante volte l’ho venduta! Da allora le amiche di mia madre non venivano mai a casa senza caramelle.
E arrivò il momento di abbandonare le suore per la maestra elementare, chissà se avrei ancora potuto disegnare, o avrei dovuto fare cose che mi piacevano meno… Mi accompagnò mia madre, la sorellina in braccio a lei, e la mano sinistra che teneva forte la mia, ricordo che feci grosse storie, a quell’età ogni stravolgimento delle abitudini fa sempre paura, ma la maestra, una signora paffutella, coi capelli mossi, aveva un sorriso rassicurante, e non tardai a volerle bene, soprattutto quando ci permetteva di disegnare. Però lo studio era faticoso… tutte quelle aste, e quei cerchi… e le poesie da studiare a memoria… quelle le odiavo.
Due anni dopo ho vissuto un’esperienza che ancora oggi ricordo come un incubo: era giugno, si mieteva il grano con la mietitrebbia, che non scaricava sui carrelli il grano sfuso, come si fa adesso, ma bisognava metterlo dentro dei grandi sacchi di juta, che man mano venivano legati e scaricati per terra. Salire sulla mietitrebbia, per me, è stata una bella esperienza, ma non immaginavo cosa avrei dovuto affrontare le notti successive. Una volta terminata la giornata di lavoro, mio padre disse che avrei dovuto restare tutta la notte, insieme a mio cugino, mio coetaneo, a far la guardia a quei sacchi per paura che venissero rubati. Nel darci le ultime raccomandazioni, ci abbandonarono là, al buio:
“State sul carrello, perché ci sono pericoli quali serpenti, faine, volpi e cani randagi, ci vedremo domani mattina.”
Parlò così, forse per tenerci svegli, del resto, come potevamo dormire? Fu una notte da incubo, ogni rumore ci spaventava, ogni luce in lontananza ci metteva apprensione, e quel che più ci preoccupava non erano gli animali o gli insetti, ma i possibili ladri, ai quali non potevamo certo opporci.
La mattina successiva vedemmo arrivare mio padre con mio zio con una brutta notizia: il camion che avrebbe dovuto caricare il grano non sarebbe arrivato che fra tre o quattro giorni, va da se che avremmo dovuto affrontare altre notti in campagna, senza dormire, come la notte precedente. Ma quella notte, e le notti successive, disfatti dal sonno, dormimmo qualche ora, a turno. Finalmente il camion arrivò, era terminato l’incubo! In cuor nostro, nonostante tutto, eravamo fieri dell’impresa compiuta.
Era consuetudine che i figli di agricoltori e pastori, dovessero affrontare queste prove. I figli dei pastori correvano più rischi di noi, in quanto il loro impegno notturno non si limitava a sole cinque notti all’anno, e il rischio di furto del grano era relativamente improbabile, mentre l’abigeato è una consuetudine radicata nella mia terra. Dopo questa iniziazione, il mondo ovattato dell’infanzia, si trasformò tutto ad un tratto, nella mia mente, in un ambiente ostile e pericoloso. I genitori lo facevano capire molto presto ai loro figli.
Da quell’anno in poi sarei rientrato a scuola con qualche giorno di ritardo, per un’altra esperienza: la vendemmia, nonostante avessi solo otto anni, dovevo lavorare e tagliare uva; mio padre mi consegnò un paio di forbici da potare con la lama non affilata, per paura di qualche possibile incidente. La vendemmia non mi dispiaceva, trascorrevo quelle ore serenamente in compagnia di altri bambini, e ci piaceva sentire le storie che i grandi raccontavano.
Mio padre aveva una vigna di cannonau, che produceva un vino di ottima qualità, ma volle provare un esperimento: ci fece tagliare l’uva senza raccoglierla, lasciando cadere per terra i piccoli grappoli, che sarebbero restati là, per giorni, a beneficiare del sole forte di quei giorni. Li raccogliemmo parzialmente appassiti, e il mosto che ne ricavammo era denso e dolcissimo, ma la quantità era di molto inferiore agli anni precedenti.
Al momento del primo assaggio di quel vino, volle invitare tutti i suoi amici: ne era venuto fuori un vino liquoroso dalla qualità eccezionale! Ancora oggi, quando si parla di vino coi miei amici, immancabilmente, quando qualcuno vanta un certo vino, gli altri gli fanno notare che non può reggere il confronto col nettare prodotto quell’anno da mio padre.
Mi trasmetteva, anno dopo anno, la sua passione per la viticoltura e l’enologia, e ancora oggi metto in pratica gli utili consigli dettati da una esperienza trasmessa dai nostri avi.
A dicembre, durante le vacanze di natale, fu incaricato dai dirigenti della cantina sociale a cui consegnavamo l’uva, di fare un giro esplorativo per capire come altre realtà vitivinicole, affrontassero i vari problemi legati alla coltivazione della vite, alla trasformazione de prodotto, e ai loro meccanismi commerciali. Volle portare anche me, ricordo i sistemi di allevamento in atto nel sud della francia, così simili ai nostri, poi visitammo varie aziende in piemonte e in toscana.
L’altra grande passione che mi trasmise, fu il gioco degli scacchi, non era un campione, ma nel mio paese era il più forte. Fu per me un gioco così coinvolgente, che mi impegnai a diventare sempre più bravo, e nel giro di due anni e mezzo, già vincevo qualche partita contro di lui. Mi regalò in seguito un libro di scacchi, e con stupore notai che molti dei principi acquisiti dall'insegnamento di mio padre, erano antiquati, addirittura esistevano regole diverse da quelle usuali nel mio paese, al che mi dovevo scontrare con qualche occasionale avversario per portare avanti correttamente la partita. Ma si sa, i Sardi sono cocciuti, e nemmeno di fronte a un libro di scacchi con tanto di regole chiare, perdono l’abitudine di rinnegare le loro consuetudini.
Espressi il desiderio di partecipare ad un torneo che si sarebbe svolto nell’ambito di una festa paesana, nelle vicinanze della contrada di sorres, mi iscrissi, e durante la prima partita mi sentivo intimorito dal mio avversario, un omone grande e grosso, ma vinsi senza problemi nonostante i miei dieci anni e la mancanza di esperienza agonistica. Vincevo continuamente, e mi portai a casa la coppa del primo classificato, nasceva così l’esigenza di partecipare alla vita di un circolo scacchistico.
Mio padre mi accompagnò in seguito all’austero circolo scacchistico di cagliari, dove persi malamente tutte le partite amichevoli giocate. Ma ciò non mi demoralizzò, anzi mi spinse a riflettere sui miei errori, e cercare di migliorare.
Oggi esistono vari tornei giovanili federali, individuali e studenteschi a squadre, ma allora no, e dovetti rassegnarmi a partecipare ai tornei paesani, che generalmente vincevo. Quando partecipavo ai tornei di cagliari, non ottenevo grandi risultati, ma portavo sempre a casa la coppa per il miglior giocatore non adulto. Conservo ancora gelosamente una targa che recita: “Promessa oggi, certezza domani”.
Dopo aver terminato le scuole medie, il mio sogno era di iscrivermi al liceo artistico, ma fui obbligato da mio padre ad iscrivermi ad un istituto tecnico. Di malavoglia frequentai quella scuola, ma i risultati furono pessimi, dopo tre anni mi ritirai dallo studio: trascorrevo forse più tempo fuori dalla scuola che dentro, conoscevo ogni angolo di cagliari, come pure lo studio del preside, per via delle molte note che ricevevo.
Non avrei potuto lavorare nell’azienda di mio padre perché era talmente piccola, che non mi garantiva un futuro decoroso, e dopo qualche anno decisi di partecipare allo sport più praticato dai sardi, il salto del tirreno.Tramite un conoscente di famiglia, trovai lavoro in un’azienda vitivinicola emiliana, nei colli piacentini. Lavoravo in vigna e in cantina, e avevo a disposizione una casa rustica in azienda.
La passione ereditata da mio padre per il mondo viticolo diede i suoi frutti, e in breve il titolare mi prese a ben volere, e mi propose di diventare il suo trattorista, in modo da sostituirlo durante le sue frequenti assenze. Avrebbe sostenuto lui le spese per il conseguimento della patente di guida, ed io accettai di buon grado. Avrei studiato da privatista, e avrei fatto scuola guida con lui, a bordo della sua macchina, in giro per l’emilia e la romagna, consegnando vini, a volte attraversavamo il po, per rifornire vari ristoratori, suoi clienti.
Dedicavo almeno un’ora allo studio, e alla fine entrai a far parte dell’esercito più numeroso d’italia, quello dei patentati. Mi insegnò tutti i trucchi per usare al meglio il trattore, eseguivo trasporti, arature e trattamenti anticrittogamici.
Intanto l’azienda si era ingrandita, le vendite di vino aumentarono, e lui era spesso assente, e per ogni lavoro aziendale incaricava me. Non bastava più la sua macchina, e decise di acquistare un furgoncino usato per le consegne dei vini, che potevo usare anche per i miei spostamenti fuori dall’orario di lavoro. Fui contento per la fiducia, e per il fatto che, avendo già deciso di acquistare un’auto, avrei per il momento risparmiato un po’ di soldi. Mi era utile la domenica per partecipare ai vari tornei di scacchi che si svolgevano in zona. Con un quarto d’ora a disposizione ciascuno per terminare la partita, cominciavano la mattina e finivamo la sera.
Avevo da tempo conseguito la categoria di terza nazionale in un torneo in sardegna, ma in emilia la stragrande maggioranza dei partecipanti era più titolata di me, Essendo i premi distribuiti per categoria, vincevo sistematicamente nella mia fascia; i premi consistevano in salumi, formaggi, vini, miele, insaccati e tanto altro, e così la mia dispensa era costantemente fornita di ogni ben di Dio.
Rientravo in sardegna due volte all’anno a trovare i miei genitori, la sorellina, e gli amici: prima della vendemmia e dopo la potatura. Con me portavo dei vini dell’azienda, che il titolare mi dava per farli assaggiare ai miei, in particolare piaceva un vino nero chiamato “gutturnio”, molto frizzante e con soli otto gradi alcolici, ottenuto da un sapiente uvaggio che univa uva bonarda con sangiovese, e un vino bianco chiamato “ortrugo”, anch’esso leggerissimo e frizzante, ottenuti bloccando la fermentazione del mosto al momento giusto. I miei genitori ricambiavano con una bottiglia di mirto fatto da loro.
Con gli amici Sardi c’erano in programma i nostri riti, sempre gli stessi, fino alla mia partenza, una partita a calcio, una pokerata più o meno bonaria, le visite alle cantine di ciascuno di noi, con relativo spuntino, una serie di partite a tennistavolo o a calcio balilla.
Le partite di calcio erano interminabili, quelle a carte finivano all’alba, gli scontri a biliardino o ping-pong terminavano per sfinimento. Le visite alle cantine non si esaurivano certo alla prima, le dovevamo visitare tutte! Era il nostro rito preferito che chiamavamo “processione”.
Tutto questo mi ricordava quand’ero giovanissimo, ma ora, che avevo diciott’anni, ero inserito già da tempo nel mondo del lavoro. Ero l’unico tra gli amici ad avere la patente, mentre gli altri studiavano ancora. Se non trovavo amici in piazza non restavo certo da solo, mi si avvicinavano persone con le quali non avevo mai scambiato una parola, in genere agricoltori, che mi facevano mille domande:
“Dove ti trovi?”
“Che lavoro svolgi?”
“Com’è la gente di là?”
“Ti trovo bene?”
Io rispondevo alle domande e ponevo la mia:
“Come va qui?”
“Qui va male”.
“La solita noia”:
“Sto pensando anch’io di andarmene”.
Ci sono agricoltori nel mio paese che hanno dieci o più ettari di vigneto, oltre ad altri terreni, e riescono a garantire a stento un futuro alla loro famiglia, mentre in emilia esistono aziende più piccole, che vanno avanti egregiamente, e riescono a garantire anche qualche posto di lavoro tutto l’anno a personale esterno.
La differenza è che loro hanno tutti una piccola cantina, e riescono a vendere tutta la produzione direttamente, mentre noi conferiamo l’uva alla cantina sociale, con risultati economici e qualitativi scadenti. Bisogna dire però che il nostro isolamento ci penalizza.
L’umanità si è evoluta in gran parte per opera degli scambi di esperienze tra i vari popoli, e l’emarginazione ci porta a conclusioni spesso sbagliate, maturate nel corso dei secoli, mentre altrove siamo di fronte a una continua evoluzione. Ho visto fare da noi delle operazioni sui vigneti che hanno dell’incredibile, o tralasciare lavorazioni indispensabili per la salute e la qualità delle uve. Il pressappochismo la fa da padrone in quasi tutte le aziende, e la razionalità è spesso un termine astratto e basta.
Al mio paese esiste il decano dei potatori, tutto ciò che dice è legge, e quello che esegue è copiato da tutti. Ma, al solo sentirlo parlare, commette errori imperdonabili. Un giorno mi si avvicina e mi chiede informazioni sulla tecnica emiliana in viticoltura; non faccio in tempo a dire due frasi e subito mi blocca:
“Cose dell’altro mondo!”
“Noi abbiamo sempre fatto diversamente, e raccogliamo l’uva ogni anno”.
“Ma si può sapere dove sei capitato?”
E comincia ad elencare i principi basilari di una viticoltura ancorata a secoli di disinformazione e di isolamento tecnico e mentale. Non volendomi scontrare con lui, decido di salutarlo dicendo di avere un impegno pressante, ma mi precede piantandomi in asso, là, in mezzo alla piazza! Dall’alto dei suoi cinquant’anni di esperienza, non può certo ascoltare le assurde teorie di uno sprovveduto diciottenne!
E lo vedo, con gli amici, gesticolare, e di tanto in tanto, volgendo lo sguardo verso di me, cercare il loro appoggio.
Siamo in novembre, faccio una proposta a mio padre: avrei potato un filare della sua vigna con una tecnica completamente nuova, e sarei tornato ad aprile, per eseguire su quel filare una potatura sul verde, operazione che da noi spesso viene trascurata, o eseguita in maniera troppo blanda. Dopo aver visto la potatura di quel filare, mi dice che avrebbe copiato il mio sistema, pur consapevole di attirare su di sé le critiche feroci dei sommi sacerdoti del tempio delle vigne!
Rientro in emilia a metà novembre, mi aspetta la stagione della potatura. Parlo ai colleghi Emiliani della mia terra, e loro mi dicono che desiderano visitarla, perché nella loro immaginazione è una terra sconosciuta e ricca di particolarità, li attira soprattutto la sua natura selvaggia. Certo, a parte qualche grossa industria petrolchimica, una parte del territorio è caratterizzato da un ambiente dove gli interventi dell’uomo sono appena visibili, ma la stragrande parte è incontaminata. Bellezza e disgrazia della nostra terra. Selvaggio l’ambiente e isolato il popolo.
Ambienti naturali mozzafiato, e gente a cui non viene data l’opportunità di progredire. E i nostri politici danno il loro benestare alla costruzione di complessi industriali estranei alla nostra civiltà.
Discendenti dell'antichissimo popolo nuragico-shardana, che tante opere artistiche e costruttive ci ha lasciato, costretti a indossare una anonima tuta con in bella vista un logo che non proviene certo dalle nostre parti.
Ambiente, agricoltura e pastorizia violentate da vapori mai sentiti prima, che in certi posti hanno sostituito i profumi della macchia mediterranea. Un’invasione di concetti e attrezzature che alla lunga indeboliranno la nostra unicità e la nostra cultura, è in pericolo persino la nostra consapevolezza di essere un popolo omogeneo. Si sarebbe dovuto puntare sull’evoluzione di agricoltura e pastorizia, salvaguardando il bene più prezioso che abbiamo: la natura che fa restare a bocca aperta i visitatori, turismo e accoglienza, ma nel nostro stile, senza scopiazzature. Mantenere l’unicità delle nostre tradizioni, e non scimmiottare un turismo di massa importato da altre realtà, che nulla hanno a che vedere con noi.
E’, in questi anni, a rischio, e non è cosa da poco, l’idea stessa di nazione sarda. La nostra accoglienza è proverbiale, ecco perché è necessario che un’azienda turistica agisca come se il visitatore sia ospite della famiglia e non dell’azienda che, va da sé, non deve avere dimensioni troppo grandi.
I lavori di potatura proseguono e il mio rapporto coi colleghi di lavoro è cordiale, ma tra loro non ho individuato nessuno col quale potrei stabilire un contatto umano più profondo. La sera, dopo il lavoro, capito in un wine bar a fiorenzuola d’arda, frequentato da un gruppo di ragazze e ragazzi che giocano a scacchi; mi presento, si dimostrano accoglienti e, appena terminata la partita, mi invitano ad accomodarmi nel posto di battaglia. Gioco tre partite veloci, vincendone due e pareggiando la terza, e vedo il loro interesse per me diventare sempre più evidente.
Tra in bicchiere di vino e una chiacchierata, mi invitano al loro circolo, il giovedì, in una struttura messa loro a disposizione dal comune, tra l’altro mi propongono di entrare a far parte della loro squadra, che in primavera avrebbe dovuto disputare il campionato italiano a squadre di promozione. Io mi riservo di prendere una decisione in seguito, naturalmente d’ora in poi il giovedì sera l’avrei dedicato agli scacchi; per la prima volta avrei frequentato stabilmente un circolo scacchistico.
Dopo qualche giorno, al circolo, apprendo che è in programma, in una cittadina poco lontana, a fidenza, un torneo per il passaggio di categoria; decido in un momento, e faccio l’iscrizione telefonica insieme a quattro componenti il circolo. L’idea di partecipare mi stuzzica non poco ma, egoisticamente, ho pensato che se avessi conquistato la seconda nazionale, avrei forse detto addio ai premi messi in palio nei vari tornei, relativi alla mia fascia di categoria, inoltre avrei dovuto chiedere al principale un giorno di riposo per il sabato successivo. Ma ormai la frittata è fatta, e inizia così la mia avventura nel primo torneo federale che avrei giocato in emilia.
Pareggio la prima partita con una ragazza mia coetanea, che vagamente dà un’aria alla mia maestra elementare a cui ho sempre voluto bene; abita a castell’arquato, una bella cittadina a soli tre chilometri dall’azienda in cui lavoro. Decidiamo di festeggiare il primo mezzo punto davanti a due caffè, in un bar lì vicino, parliamo fitto fitto di scacchi e altri argomenti.
“Io mi chiamo Emilia, e tu?”
“Josto.”
“Ma sei sicuro che tuo padre fosse sobrio quando ti ha imposto un nome del genere?” fa lei con un sorrisetto.
“Penso di no, perché, dato il fatto che ero bellissimo, sicuramente è andato in qualche cantina a festeggiare con gli amici il lieto evento!”
Botta e risposta, da buoni scacchisti.
“Nonostante tutto è un nome che suona bene, ma avrei giurato che fosse un nome brasiliano o portoghese.”
“Non saprei immaginarmi con un nome diverso.”
Salutandoci, le propongo di accompagnarla al torneo, il giorno dopo, col mio furgoncino.
“Non sono mai stata su un furgoncino, accetto volentieri.”
Il giorno dopo, di buon’ora, certamente in anticipo, parto verso Emilia. Penso che non avrebbe dovuto aspettarmi nemmeno un minuto, si materializza nella mia mente il suo viso, e dopo poco tempo la vedo uscire da una casa che fa parte di un borgo medioevale restaurato alla perfezione, e sovrastato da un fantastico castello.
E col castello alle sue spalle, la vedo come una antica cortigiana.
Dopo qualche battuta di spirito riguardo il furgone, ci avviamo verso fidenza. Cammino piano, come per prolungare al massimo quel viaggio.
“Ma guidi come un vecchietto!”
Ho voglia di dirgli il vero motivo della mia lentezza, ma rispondo banalmente che siamo in anticipo. Una volta arrivati, propongo un caffè al solito bar, per fare la scorta di zuccheri; mi sembra anche questa una scusa banale, il vero motivo è che voglio stare con lei il più possibile; non è quella l’impressione che avrei voluto darle, certo come sono, che le banalità non fanno parte del mio carattere, eppure ne snocciolo una dopo l’altra, con una sequenza spaventosamente fitta.
Secondo turno di gioco, puntiamo entrambi alla seconda nazionale, e stavolta non ci possiamo accontentare di un pareggio, lei vince, ma io, trovandomi di fronte a un candidato maestro, perdo malamente in poche mosse. Era da molto tempo che non perdevo in quel modo, ma quel che più conta è che quella sconfitta mi scredita agli occhi di Emilia. La invito, date le mie scarse finanze, a consumare un panino e una birra al solito bar. Parliamo della mia partita, compromessa da un errore banale: dovevo effettuare una mossa forte, catturando un pedone con un mio cavallo, ma lo catturai con un alfiere, invertendo le mosse.
“Vedrai che ti rifarai, nulla è perduto”, mi dice con uno dei suoi migliori sorrisi.
Aspettiamo il terzo turno, seduti su una panchina di un giardinetto. Avrei voluto parlarle dei miei progetti futuri, con lei al mio fianco, invece sforno, come per incanto, un mare di banalità ad un ritmo così impressionante che ripeto tra me “questo non sono io, questo non sono io”.
Alla fine le esprimo la simpatia, e quel qualcosa in più, che provo per lei, Emilia diventa seria tutto ad un tratto, non dice nulla, e resta pensierosa per un po’.
Il terzo turno vede Emilia pareggiare, ed io vincere, a quel punto lei ha due punti, e non è messa male in classifica, mentre io, con un punto e mezzo, viaggio nella banalità del centro classifica. Al ritorno le chiedo, con apprensione, se posso accompagnarla anche il sabato successivo e lei acconsente. Il venerdì comunico al titolare che il giorno dopo non sarei venuto a lavoro, e, un po’ sfacciatamente, gli chiedo in prestito non il furgone, ma la sua auto lussuosa. Mi chiede, con aria furba, se per caso non ci sia di mezzo una ragazza, io annuisco. Mi risponde che me la avrebbe prestata la domenica.
Il sabato mattina, arrivato col rituale anticipo, aspetto Emilia con una certa impazienza, sono ansioso di vedere l’espressione del suo volto, che non è male, forse una settimana fa non è successo nulla di irrimediabile, a volte per ottenere tutto si rischia di perdere quel poco che si ha.
Si comporta come suo solito, e parliamo solo di scacchi durante il viaggio. Un caffè e una pasta, e siamo pronti a tuffarci nella giostra del quarto turno.
Vinco quella partita equilibrata, per via di un’inesattezza del mio avversario nel finale, non era facile approfittarne, ma con un gioco corretto e incisivo, senza una minima sbavatura, riesco nell’intento; ciò mi dà fiducia, e penso di essere pronto per il salto di categoria. Emilia pareggia con un avversario di categoria nettamente superiore alla sua. Soddisfatti dell’exploit, mangiamo il solito panino con appetito, nella solita panchina dei giardinetti.
Il quinto turno ci vede appaiati in classifica con due punti e mezzo. Lei vince con un seconda nazionale, mentre io ho di fronte una prima; decido di complicare il gioco, e arrivo al finale di partita con un certo vantaggio posizionale, non facile da sfruttare; giocando correttamente avrei conquistato un ottimo pareggio, pianifico una serie di mosse, scaturite da un mio possibile sacrificio, che poteva mettermi in posizione vincente, ma se ho fatto male i calcoli, avrei perso certamente.
Penso per venti minuti sia all’opportunità o meno di mettere a rischio il mezzo punto, sia alla mossa concreta da eseguire, e alle sue possibili conseguenze e varianti.
Realizzo che il sacrificio è corretto, e lo eseguo, ma il mio avversario non lo accetta, e questo fatto mi mette in netto vantaggio su di lui, e alla fine conquisto un insperato punto, che mi consente di ipotizzare che posso ragionevolmente conquistare la seconda nazionale, al pari di Emilia, in quanto mancano solo due turni alla fine del torneo. La riaccompagno, dandole appuntamento per la mattina successiva.
Arrivo con il macchinone, e la vedo arrivare, è spaesata in quanto non vede il furgoncino, le faccio segno con i fari, e lei si avvicina.
“Eh, ma allora non soltanto dici banalità, ma quel che è più grave è che le metti anche in pratica” mi apostrofa.
Forse la mia non era stata una buona idea, ma ormai la frittata era fatta, mi salta in mente di dirle una bugia, ma per fortuna lo evito e trovo una frase non male:
“Scusa se non sono venuto col furgone, ma ti dovrai accontentare di questo trabiccolo”.
“E va bene, ma avrei preferito il furgone, in fondo finora ci ha portato fortuna!”
Ha ragione.
Dopo la rituale scorta di zuccheri, inizia il penultimo turno, che mi vede di fronte a un candidato maestro, mentre Emilia gioca con un prima nazionale. Anche stavolta decido di complicare al massimo il gioco, altrimenti avrei avuto poche speranze di ottenere un risultato positivo. Lei vince inaspettatamente la sua partita, che ho seguito dalla prima all’ultima mossa, in quanto giocava al mio fianco. Il suo avversario ha eseguito un sacrificio di torre su un alfiere, ma lei è riuscita a difendersi ordinatamente, ed ha portato a casa un’insperata vittoria.
Con lo sguardo le faccio i complimenti, e mi rituffo sulla mia complicatissima partita.
Ho dovuto subire un sacrificio che sembrava vincente, avevo addosso una forte tensione, la mia posizione sia scacchistica che psicologica era ormai destabilizzata, e da ogni angolo della scacchiera erano presenti potenziali minacce che avrebbero compromesso il mio re.
Ho pensato e ripensato, ma non trovavo soluzioni, dopo mezz’ora non avevo ancora mosso, valutai un controsacrificio immediato, ma la posizione che avrebbero assunto i miei pezzi dopo sei o sette mosse, non mi dava eccessiva fiducia, e non riuscivo a vedere, in prospettiva, lo schieramento che avrebbero assunto i pezzi, ma non avevo altre opzioni decenti, e allora ho eseguito quella mossa, e subito dopo mi sono alzato dalla sedia per fare due passi, per stemperare, ammesso che ciò fosse possibile, la tensione accumulata.
Ho fumato voracemente una sigaretta, in una stanza apposita, scambiando due parole con Emilia, ho fatto altri due passi, e mi sono avvicinato timoroso alla mia postazione di combattimento, che per me, in quel momento, aveva l'aspetto di un patibolo.
Con mio grande stupore, il mio avversario mi proponeva il pareggio, che ho subito accettato.
Birra, panino e caffè consumati in allegria con Emilia che, avendo seguito le fasi complicatissime della mia partita, mi spiega che, secondo lei, avevo perso mezzo punto, e non guadagnato, perché la vittoria era alla mia portata, ma nella mia mente c’era solo nebbia. Mi invita a piazzare mentalmente i vari pezzi, e a considerare una mia continuazione che non avevo valutato, improvvisamente mi sono reso conto che ha ragione, ma va bene così, dato che tale opportunità non era passata per la mia mente. A volte, il nostro sport si nutre di sottigliezze… Parliamo delle buone opportunità che la classifica ci fornisce, lei in particolare, con i suoi quattro punti e mezzo, è seconda in classifica con altri, e può verosimilmente aspirare al podio.
La partita decisiva, (ma in un torneo sono tutte decisive…) ha inizio col mio avversario precedente di fronte ad Emilia, mentre io gioco con un terza nazionale. Con un pedone di vantaggio conquistato in apertura, porto avanti la mia partita, evitando complicazioni, mentre lei gioca un’inusuale apertura che mette in difficoltà il suo contendente. Le cose si mettono bene per entrambi, io arrivo nel finale col pedone di vantaggio, che mi ha consentito di vincere la mia partita, mentre lei, cercando di sfruttare il vantaggio posizionale che si era conquistata, tenta in tutti i modi di vincere, con sottigliezze e tatticismi da giocatrice navigata, ma ha di fronte un forte giocatore che, seppure in difficoltà, non cade nei suoi tranelli. Alla fine si accordarono per un pareggio.
Siamo finalmente entrambi seconde nazionali, consapevoli che non ci saremmo certo fermati a quel traguardo, in quanto abbiamo tenuto testa a prime nazionali e candidati maestri.
Il sabato sera successivo, vado al suo paese con la speranza di incontrarla, ma di lei nessuna traccia; non so dove cercarla in quanto, stupidamente, non le avevo mai chiesto quali posti frequentasse. Torno la sera dopo, e la vedo all’esterno di una birreria, in compagnia di alcuni amici ed amiche, mi avvicino e, dopo essermi presentato, le chiedo sfacciatamente, di fronte a loro, se potesse separarsi dal suo gruppo e stare un po’ con me.
“Con che mezzo sei venuto?” mi chiede.
“Stavolta col trattore!” rispondo.
“Allora la risposta è si”.
“Eh, la lezione mi è servita”.
“Vedo che impari in fretta”.
Una volta soli le confido che ogni mio pensiero è per lei. aggiungo di essere proprio "cotto”.
“Vedo”.
Le propongo di trascorrere la serata in casa mia.
“Ma quanto corri…” è la sua risposta.
Finalmente abbandono le banalità, e parlo di cose estremamente serie. Mi dice di non avere intenzione di impegnarsi con nessuno, perché vuole tenere la mente sgombra per gli esami di maturità, che avrebbe dovuto sostenere fra sette mesi. Non faccio storie, e mi accontento della sua compagnia per tutta la sera, dentro di me so di non esserle indifferente, ma so anche che dovrò soffrire ancora per molto tempo.
Le chiedo un appuntamento per il sabato successivo, ma lei mi disse che il sabato è dedicato agli studi, ci saremmo visti la domenica.
Il sabato successivo partecipo ad un torneo, col solito scopo di rifornire la dispensa, ma essendo seconda nazionale, non mi classifico tra i primissimi della categoria, e quindi resto a bocca asciutta.
Il giorno dopo, di pomeriggio, mi reco a trovare Emilia, ma lei non arriva. Nel momento in cui decido di fare un giro per il paese, la vedo arrivare.
“Ciao”.
“Ciao”.
“Scusa il ritardo”.
“L’importante è che sia venuta”.
“Oggi voglio sentire da te solo banalità”.
“Come?”
“Beh, hai dimostrato che, se vuoi, sai parlare anche seriamente”.
“Mi stai prendendo in giro?”
“No”.
“Ci prendiamo un caffè?”
“Si, ma non qui.”
“Ti va di andare a piacenza?”
“No, lo prendiamo a casa tua”.
“Co… come?”
“Ma va che hai capito benissimo”.
“Si, ho capito benissimo, ma non ti voglio forzare a fare nulla che tu non voglia”.
Ricomincio a dire colossali castronerie!
“Tu offrimi il caffè, poi si vedrà”.
Sono confuso, decido che assolutamente non avrei preso iniziative. Una volta giunti a casa, preparai il miglior caffè che avessi mai fatto!
“Questo caffè merita un bacio”.
Immagino che quel caffè sia ottimo, dal momento che i baci sono tanti .
Stappo una bottiglia di gutturnio, che al momento dell’assaggio, con un milione di bollicine, sembra il miglior champagne che fosse mai stato prodotto. Finalmente Emilia è mia, la cosa migliore che avessi mai potuto desiderare! Avrei voluto vederla ogni giorno, ma decido di lasciarla libera di studiare. Decidiamo di vederci il sabato sera e la domenica.
La settimana successiva, essendo la potatura agli sgoccioli, decidiamo di trinciare i tralci, preparando il terreno per le arature, nel frattempo gli altri operai avrebbero terminato la potatura. Sento dentro di me un’energia che non avevo mai provato prima, mi viene in mente l’impresa compiuta a soli otto anni, e mi sento fiero, allora come ora.
Arriva l’estate, e i lavori continuano a ritmo serrato, mentre Emilia si preparava per l’esame. Ha in mente di festeggiare l’evento con gli amici, in casa sua, se avesse avuto un buon punteggio. Le dico che avrei avuto piacere di presentarmi ai suoi genitori, come il suo ragazzo.
“Ogni cosa a suo tempo”.
La risposta non mi piace gran che, spero che sia dettata dal fatto che è sotto tensione. Si diploma con un buon voto, ma nettamente inferiore all’ottima media degli ultimi anni. E' delusa, ma la festa si sarebbe tenuta ugualmente. Mi presenta ai suoi genitori come un amico, alla mia faccia stupita, segue quella dei genitori che evidentemente sanno di noi; in un attimo mi crolla il mondo addosso.
“Ho voglia di andare via!” le dico quando troviamo il tempo di restare soli.
“Sono depressa, non so cosa voglio, sto mettendo in dubbio anche il nostro rapporto, ma non andare via adesso.”
Non so come comportarmi; se starle vicino ed aiutarla a superare quel brutto momento, o assecondare il mio istinto e andare via.
Scelgo la prima opzione, ma dopo poche settimane mi accorgo che non sta più bene con me, e non volendo certo forzare una situazione che diventava sempre più imbarazzante, mi preparo le parole giuste per esternarle il mio stato d’animo:
“Io voglio solo il tuo bene, decidi per il meglio per te stessa, il meglio per me sarebbe non troncare il nostro rapporto, ma così non mi va, se mai ti venisse voglia di vedermi, sappi che sarei contentissimo, in quel caso sai dove trovarmi, io ti aspetto.”
Me ne vado con addosso una tristezza indescrivibile.
Durante il ritorno, valuto la mia attuale condizione, decido di continuare gli studi, e qualche tempo dopo mi iscrivo al liceo artistico come privatista; avrei dovuto dare un durissimo esame per poter essere promosso alla terza classe, in quanto provenivo da un istituto tecnico, che dava una formazione ben diversa dal liceo artistico.
La sera dopo, ho speso un mezzo capitale in una libreria di parma, che vendeva libri usati, anche scolastici. Avendo un anno di tempo, decido di dare l’esame integrativo, e subito dopo l’esame per passare in quarta. Oltre agli scacchi, con lo studio sui libri, si fa pressante la passione per la grafica e per le incisioni. Tenendo alte le tirature, realizzo varie incisioni, che consegno ad una galleria di parma, arrotondando così il mio stipendio da contadino.
Mi dedico alle incisioni solo in periodi piovosi, poi lo studio, il lavoro, e mi resta poco tempo da dedicare a me stesso e agli scacchi.
Quando rientro in sardegna, non mancano, oltre al buon vino dell’azienda, una copia di ciascuna incisione per i miei. Racconto agli amici la mia breve relazione con Emilia, e loro, vedendo una sua foto, si chiedono come avessi fatto a farmi sfuggire una così bella creatura, ed io, raccontando gli ultimi avvenimenti, rispondo che praticamente non avevo lottato per tenerla stretta. Mi prendono bonariamente un po’ in giro:
“La cosa inspiegabile è piuttosto come tu abbia fatto a conquistarla”.
“La fortuna dei principianti!”
E tra partite a calcio e processioni, trascorro la mie vacanze in questa terra, che mi sembra sempre più bella. Abbiamo fatto una spedizione di due giorni con gli amici in ogliastra, che per me è la zona più suggestiva dell’intera isola, dal punto di vista paesaggistico, culturale e gastronomico. Probabilmente non dimenticherò mai una cena a base di maialetto e buon vino, nella zona del bosco di selene.
Scatto molte foto, per farle vedere ai colleghi Emiliani, certo del fatto che resteranno affascinati da quelle bellezze selvagge.
Qualche tempo dopo, rientrato in emilia, vado dal gallerista per consegnare nuove incisioni e qualche disegno, e gli faccio vedere le foto.
“Ogliastra”, mi dice,
”la conosco bene, come il resto della sardegna, in quanto ci vado ogni anno, a trascorrere qualche giorno di ferie; mi piacciono molto le zone interne, ma la tua zona mi piace meno, mi da l’impressione che sia abitata da Sardi che hanno subito più di altri l’inquinamento di altre culture.”
”la conosco bene, come il resto della sardegna, in quanto ci vado ogni anno, a trascorrere qualche giorno di ferie; mi piacciono molto le zone interne, ma la tua zona mi piace meno, mi da l’impressione che sia abitata da Sardi che hanno subito più di altri l’inquinamento di altre culture.”
E' stato duro, ma non posso dargli torto.
Parlando d’arte, mi fa osservare alcuni quadri presenti in galleria, e realizzati da pittori meridionali, pieni di luce e colori, mentre i quadri dei pittori del nord, sono brumosi e dai contorni indefiniti, mi dice che se dipingessi, i miei quadri sarebbero una via di mezzo tra i due stili.
Al rientro a lavoro, riprendo la mia vita non certo assonnata, ma ho degli obiettivi da raggiungere, e non posso rilassarmi proprio ora. Dopo tre anni conseguo il diploma, è venuto il momento di fare un bilancio della mia vita: bene la maturità appena conseguita, frutto di tanti caffè per tenermi sveglio, a livello artistico sono un discreto incisore, ho qualche cliente che possedeva la collezione completa dei miei lavori, ho anche collaborato alla realizzazione di alcune scenografie teatrali, ho progredito anche a scacchi, diventando una buona prima nazionale, ma ho perduto gli anni migliori per ottenere gli ambiziosi risultati a cui ambivo, sul lavoro sono considerato un buon professionista in vigna, ma ho delle lacune in cantina; pur conoscendo i meccanismi basilari di questa complessa arte, non possiedo una tecnica mia personale, che il mio datore di lavoro invece ha, ma che non mi trasmette, tecnica che mette a frutto per produrre i suoi vini così particolari. Ogni cantiniere conserva gelosamente i suoi segreti, che comunica solo a chi è destinato a prendere il suo posto. Questa considerazione mi mette a disagio, visto che ancora non mi ha svelato alcun segreto, ma solo tecnica spicciola.
E poi c'era Emilia… con lei, si, ho fallito.
Dopo qualche anno il titolare ci comunica di aver venduto l’azienda a una grossa compagnia, è in crisi finanziaria a causa di investimenti troppo azzardati, le banche alle quali era legato non avevano intenzione di appoggiare i suoi equilibrismi contabili all’infinito. Ci rassicura dicendo che saremmo stati riassunti dai nuovi proprietari, come prevede una clausola della vendita. Una volta visto l’andamento della nuova gestione, ho la netta sensazione che il capo del personale mira solo al profitto dell’azienda, senza tenere in nessun conto dei bisogni dei dipendenti, decido allora di contattare altre aziende. Amici di famiglia mi organizzarono un incontro di lavoro con una grande e prestigiosa azienda friulana, e durante il colloquio accetto il lavoro di trattorista.
Saluto i colleghi di lavoro, gli amici del circolo di fiorenzuola, telefono al gallerista dicendogli che sarei passato da lui in futuro, acquisto un’auto usata e cerco Emilia al suo paese; mi dicono che per motivi di studio si era trasferita da tempo forse in veneto, consegno una lunga lettera per lei ai suoi genitori, ed abbandono l’emilia con una certa tristezza.
Dopo qualche anno il titolare ci comunica di aver venduto l’azienda a una grossa compagnia, è in crisi finanziaria a causa di investimenti troppo azzardati, le banche alle quali era legato non avevano intenzione di appoggiare i suoi equilibrismi contabili all’infinito. Ci rassicura dicendo che saremmo stati riassunti dai nuovi proprietari, come prevede una clausola della vendita. Una volta visto l’andamento della nuova gestione, ho la netta sensazione che il capo del personale mira solo al profitto dell’azienda, senza tenere in nessun conto dei bisogni dei dipendenti, decido allora di contattare altre aziende. Amici di famiglia mi organizzarono un incontro di lavoro con una grande e prestigiosa azienda friulana, e durante il colloquio accetto il lavoro di trattorista.
Saluto i colleghi di lavoro, gli amici del circolo di fiorenzuola, telefono al gallerista dicendogli che sarei passato da lui in futuro, acquisto un’auto usata e cerco Emilia al suo paese; mi dicono che per motivi di studio si era trasferita da tempo forse in veneto, consegno una lunga lettera per lei ai suoi genitori, ed abbandono l’emilia con una certa tristezza.
Cormons, friuli.
Il mio arrivo avviene di sabato nella tarda mattinata, il mio conoscente mi sistema in un agriturismo gestito da lui, con la raccomandazione di cercare, senza fretta, un nuovo alloggio. Scarico la macchina, sistemo le mie cose, e dopo aver pranzato con la sua famiglia, mi avvio, nel pomeriggio, a perlustrare la zona. Capito per caso in un bar del centro, e vedo due signori giocare a scacchi, piuttosto bene, direi. Chiedo il permesso di poter assistere alla partita, e al loro distratto cenno affermativo, seguo con interesse gli sviluppi del gioco. Terminata la partita, mi chiedono se fossi Sardo, riconoscono le inconfondibili inflessioni che non ho mai perso, simili a quelle di un socio del loro circolo, proveniente dalla mia zona. mi fanno sapere che conoscono molti Sardi che abitano nella cittadina, che dicono affidabili e grandi lavoratori. Aspetto l’invito a giocare una partita contro uno di loro, ma, con disappunto, vedo che iniziano una nuova partita tra loro, mi spiegano dove è il circolo scacchistico, mi dicono che posso trovarlo aperto il giovedì, e continuano la loro partita. Un po’ indispettito, come se mi avessero snobbato, li saluto assicurando la mia presenza al circolo.
Intanto vado alla ricerca di un alloggio, tendendo l’orecchio alla ricerca di un improbabile accento sardo, niente da fare, di Sardi nemmeno l’ombra, e gli alloggi sono troppo cari per le mie tasche. Avrei ripreso le ricerche il giorno successivo. A cena faccio la conoscenza più approfondita dei miei conterranei, e parlo del primo approccio che ho avuto coi Friulani e con i due scacchisti. Loro, seppure senza giustificare il loro comportamento, mi dicono che loro sono fatti così, e in fondo non sono stati scortesi, hanno un diverso tipo di accoglienza, derivata da secoli di invasioni, e vedono lo straniero come un pericolo, un po’ come noi quando subivamo le invasioni dal mare. Faccio notare che io sono venuto dalla parte opposta, al che mi rispondono che loro considerano popoli fratelli solo i Veneti. Tra me e me mi domando in che posto sia capitato, e lui, come se mi avesse letto nel pensiero:
“Aspetta a giudicare, se sei una persona affidabile, non tarderanno a trattarti bene.”
Mi spiega che, come noi, hanno una forte spinta autonomistica, mitigata dal benessere che sono riusciti a conquistare, anche l’amore per la loro lingua è simile al nostro, mi dice che c’è una zona, la carnia, che assomiglia per molti aspetti culturali e di tradizioni alla nostra barbagia.
Poi mi invita a fare un viaggio verso trieste, mare pulito a destra, e macchia mediterranea a sinistra, c’è da confondersi con la nostra isola. Mi sento un po’ rassicurato dalle parole di Giorgio, questo è il suo nome, mentre la moglie, Serena, annuisce. Di fronte a me siedono le figlie, entrambe graziose, e dai lineamenti sardi: Gianna e Carmen. La più grande assomiglia alla madre, mentre Carmen al padre. Carmen è un peperino non indifferente, mi fa cento domande, a cui rispondo volentieri, Serena mi dice che la figlia grande frequenta la quinta elementare, mentre la piccola frequenta la prima, sono entrambe nate in friuli. Chiedo a Giorgio un suggerimento per la ricerca di un alloggio, lui mi consiglia di chiedere agli scacchisti, poi mi assicura il suo interessamento. La domenica è dedicata alla ricerca di un cartello “affittasi”, ma la ricerca è vana. Per cena invito la famiglia di Giorgio in pizzeria, così, per sdebitarmi parzialmente, trascorriamo una bella serata, parlando soprattutto dei Friulani.
La mattina successiva mi reco in azienda per consegnare i documenti, conosco il responsabile dell’ufficio e l’amministratore. L’indomani faccio la conoscenza dei colleghi, trattoristi operai e cantinieri, sono oltre venti persone di ogni età e nazionalità: Friulani, Calabresi, Sloveni, Bosniaci, Rumeni, Croati, Slovacchi e Macedoni. Mezza europa riunita in un’unica azienda estesa meno di duecento ettari. Le vigne sono molto ben tenute, danno un senso di ordine e denotano una grande professionalità in chi ci lavora e in chi le dirige. Faccio subito amicizia con i tre Calabresi, e con un Friulano affetto da una leggera disabilità fisica e psichica: Beniamino. Essendo la mia pelle molto scura per il sole accumulato in emilia, mi chiede di che nazionalità nord-africana fossi. I primi giorni cerco di memorizzare tutti i nomi dei colleghi, e come mi sarei dovuto relazionare con loro, e capire chi poteva essere adatto per una frequentazione anche fuori dall’ambito lavorativo.
Arriva finalmente il giovedì sera, e faccio il mio ingresso al circolo, sono presenti tre persone che non stanno giocando, dopo le presentazioni, faccio loro sapere che sono alla ricerca di un alloggio, non mi sono di nessun aiuto, poi, all’arrivo di una quarta persona, si mettono a giocare tra loro. Dopo un po’ arrivano altre persone, e si mettono a giocare tra loro, resto solo io e un signore anziano che, vedendo che non arrivava nessun altro, mi propone di fare una partita, vinco in poche mosse. Di fianco a me gioca uno dei signori incontrati al bar, e mi dice che avrei giocato col vincitore. Vince la sua partita, ma perde contro di me. Vengo sfidato da un altro forte giocatore e, a fatica, vinco anche contro di lui; a questo punto fioccano le domande, finalmente si interessano a me! Mi propongono di entrare a far parte della squadra che avrebbe disputato, in primavera, il campionato italiano di serie B, mi forniscono anche qualche indirizzo per poter risolvere il mio problema abitativo. Hanno rotto il ghiaccio, così, all’improvviso, era bastato vedermi giocare a scacchi. Sono l’unico prima nazionale del circolo, ma i due ultimi avversari hanno dimostrato di giocare alla pari con me. Chissà se avremmo dato filo da torcere alle squadre di udine, gorizia, e soprattutto trieste, che la fa da padrona.
Il venerdì sera incontro uno dei soci del circolo, che mi propone una passeggiata verso una “frasca”, dove avrei incontrato un incaricato dalla proprietaria di vari appartamenti, al quale espongo il mio problema, visitiamo un appartamento, ci mettiamo d’accordo sul canone d’affitto, e firmiamo il contratto. E’ un appartamento datato, ma quando era nuovo faceva sicuramente una splendida figura: muri grossi, parquet, doppie finestre, tanto legno, in perfetto stile friulano, avevo inoltre la possibilità di cercare un altro inquilino per dividere le spese, dato che disponevo di due camere da letto. La domenica effettuo il trasloco, aiutato da Giorgio, agevolato dal fatto che parte delle mie cose non erano state tolte dagli imballaggi. Prendo possesso della casa, e ringrazio Giorgio per tutta la disponibilità che mi ha dimostrato, gli assicuro che sarei andato a trovarlo presto, ma lui mi invita alla frasca.
La frasca è una grande sala che fa parte dell’agriturismo, luogo tradizionale dei Friulani per socializzare, si possono assaggiare i vini aziendali, formaggi, salumi, olive e dolci della zona, Serena ha però integrato l’offerta con ottimi pecorini, dolci tipici sardi, e l’immancabile mirto, che va a ruba. Sono presenti, li riconosco dall’accento, alcuni Sardi, amici di Giorgio, che mi presenta.
“Comment’andaus?” ( Come andiamo?)
“Beni, beni.” (Bene, bene.)
“Beni benìu”. ( Benvenuto.)
“E itt’è s’idea?” (Come mai qui?)
“Seu benìu po’ traballai”. (Sono qui per lavoro.)
“Ah, innoi t’as’agattai beni”. (Qui ti troverai bene.)
“Tasta su casu e su binu”. (Assaggia il formaggio e il vino.)
“Ci podis contai”. (Puoi esserne certo.) I Sardi hanno tanti pregi, ma un grosso difetto: nella loro terra sono individualisti e chiusi a nuove conoscenze, ma fuori tendono a fare “branco”, il più numeroso possibile, e accolgono i conterranei senza stare a pensarci su troppo. Per me l’amicizia va conquistata giorno dopo giorno, non basta un bicchiere di vino o una cena in compagnia, anche se tra conterranei.
A lavoro cerco di stare coi Calabresi, con Beniamino, e con un Pugliese, arrivato subito dopo di me, mi viene da pensare che anche noi stiamo formando un branco in azienda. Nell’ora di pausa-pranzo ci troviamo in oltre venti persone in una grande stanza, con tavoli, sedie, un frigorifero, un forno a microonde, e un distributore di caffè, il posto giusto per conoscere gli altri, e Beniamino, che sembra apprezzare la mia compagnia. Un giorno mi racconta a grandi linee la sua storia, e mi invita a visitare la comunità in cui abita. Tra i tanti ospiti del centro, lui è l’unico che lavora per sua scelta: avrebbe potuto star lì, in eterno, senza sacrificarsi. Mi racconta che sono tutti ragazzi e giovani disabili, alcuni hanno bisogno di assistenza continua, mi accorgerò ben presto che il mio amico, là, è un leader.
Una sera arrivo alla comunità, vengo presentato come suo grande amico, e tanti si avvicinano per scambiare due parole e per raccontare la loro storia, qualcuno ha ottenuto ottimi risultati sportivi anche a livello mondiale. Mi dicono che due ragazze suonano il pianoforte, non resto mai indifferente a quello strumento, specie se utilizzato alla perfezione, mi assicurano che suonano divinamente, un gruppo ha messo su un complessino musicale, un altro gruppo porta avanti un ottimo gruppo teatrale. Beniamino mi invita alla festa annuale, presenti i genitori dei ragazzi, durante la quale verranno premiati gli atleti e i vari gruppi, la festa si concluderà con una colossale cena finale. Poi mi presenta una delle giovanissime psicologhe, che è sicuramente appena laureata.
“Josto, ti presento la mia grande amica “
“Piacere, sono un collega di Beniamino”.
“Mi chiamo Laura”.
“Lavori qui?”
“Si , ma solo part-time, seguo i vari gruppi.”
“Anche il gruppo teatrale?”
“Si”,
“Allora mi impegno, se ve ne fosse bisogno, di realizzare le scenografie”.
“Volentieri.”
E arriva il tempo della vendemmia; come i lavori finora sono stati eseguiti con ordine e razionalità, così in vendemmia regna il caos. Caos controllato, s’intende. Può capitare che si raccolga una varietà d’uva, e dopo due ore un’altra, viene tenuto giornalmente sotto osservazione l’evoluzione del grado zuccherino delle varie uve, che vengono raccolte esattamente nel momento migliore, tenendo anche conto dell’esigenza di realizzare i tradizionali uvaggi, di cui i Friulani sono maestri. Chardonnais, pinot nero e grigio, sono le prime uve raccolte; diventeranno spumanti, o leggerissimi vini dalle allegre bollicine, il primo in particolare, è stato raccolto in quattro fasi differenti. Producono ottimi vini, in una fascia di prezzi medio-alta, esportano in tutto il mondo, e hanno una fitta rete di rappresentanti.
Quasi due volte al mese, vengo chiamato a dare una mano in cantina per l’imbottigliamento, segno che le richieste sono costanti e consistenti. Ogni anno, sotto natale, si svolge, in un ristorante di proprietà dell’azienda, una sontuosa festa, in cui sono presenti operai, impiegati e rappresentanti. Per tutti, alla fine, ci sarà una bella confezione di una mezza dozzina di pregiatissimi vini. Tra me penso a quanto sia lontana questa viticoltura dalla nostra. Anche noi abbiamo ottimi vini, ma le strategie commerciali lasciano molto a desiderare, a cominciare dai nomi impronunciabili che gli vengono dati. Non possiamo dare la responsabilità, oggettivamente pesante, solo al nostro isolamento fisico, ma anche all’isolamento culturale e di immagine. Molte aziende friulane, per garantire qualità, sono obbligate, visto il clima, a tenere le rese ad ettaro molto basse, mentre noi, col clima che abbiamo, potremmo ottenere la stessa qualità con rese superiori. Inoltre da noi le aziende sono slegate tra loro, anzi, talvolta si intralciano a vicenda, mentre qui hanno imparato a “fare sistema”, e sfruttare sinergie.
La regione friuli e le camere di commercio, mettono a disposizione dei viticoltori, un esercito di professionisti preparati e motivati alla divulgazione di nuove tecniche colturali, di strategie commerciali, e di novità scientifiche in campo enologico. Da noi ciò è solo utopia, in quanto non ci si mette nemmeno il problema, ci basta fare qualche manifestazione estiva, o partecipare a qualche rassegna continentale, e il problema è risolto. Eppure abbiamo delle grandi potenzialità umane, che ci dovrebbero far riflettere: capita che una persona, che da noi è un “signor nessuno”, una volta saltato il tirreno o l’atlantico, ottiene riconoscimenti importanti.
La vendemmia è ancora in corso, quando improvvisamente si guasta il tempo, e per tre giorni facciamo vacanza. Ne approfitto per andare a trovare Giorgio, anche lui in ferie forzate, e lì faccio nuove conoscenze: la famiglia di un suo amico, che abita in un paesino vicino a cormons: Adamo con la moglie Berta e i figli Sirio e Cenzo. Mi trovo subito a mio agio con loro, Adamo è una persona particolare, dall’intelligenza pronta e dalla battuta significativa, mai banale. Attualmente lavora presso una grande azienda che si occupa di ristrutturazioni edili e industriali, e ha tra i colleghi, artigiani dalle competenze più disparate: idraulici, muratori, elettricisti, piastrellisti e via discorrendo, ha la mansione di caposquadra. Mi rendo conto ben presto di essere di fronte ad una persona dalle doti fuori dal comune, ben assecondato dalla moglie, dall’ottima accoglienza, che fa sentire l’ospite come se fosse a casa propria. Ha capacità relazionali che mettono a proprio agio persino i Friulani, notoriamente restii a intrattenere contatti col primo venuto, e mette loro a disposizione le sue competenze, quando necessario. Ha avuto esperienze in passato anche come cantiniere, e in bella mostra, su uno scaffale, noto vari premi enologici, ecco finalmente una persona che avrei il piacere di annoverare tra i miei migliori amici.
Il pomeriggio successivo vado alla comunità, e vengo accolto festosamente dai ragazzi, che si danno un gran da fare per trovare “il mio grande amico”. Beniamino arriva in compagnia di Laura:
“Ciao fratello”.
“Ciao fratello”. (una nostra convenzione…)
“Ciao Laura”.
“Ciao Josto”.
Lei mi dice che a breve sarebbero partite le prove per il nuovo spettacolo teatrale, mi consegna il copione, e mi incarica di progettare la scenografia. Le dico che nel giro di dieci giorni avrei terminato il progetto. Trascorro una serata rilassante con loro e i ragazzi.
L’indomani mattina, seppure con la pioggia, viene a trovarmi Beniamino, imbacuccato come un palombaro. Mi fa vedere delle belle foto realizzate da lui, e mi dice che quella è la sua grande passione, mi fa vedere la sua macchina fotografica accessoriata da mille aggeggi, sicuramente ha speso una mezza fortuna per l’acquisto di quel po’ po’ di roba, gli propongo di realizzare un servizio fotografico, sulle varie fasi della realizzazione della scenografia.
“Va be-bene fratello”, mi dice con la sua leggera balbuzie, gli offro un mirto, che rifiuta, in quanto non può bere alcool, preferisce un caffè, che ho notato, beve in quantità industriali, come me.
“Ti piace mia cugina?” mi fa a bruciapelo.
“E chi è tua cugina?” (altra convenzione tra loro)
“E’ Laura”.
“Certo che mi piace”.
“Sono venuto ad invitarti alla festa annuale di domenica prossima”.
“Ci sarò”.
“Ci sarà anche lei”.
“Eh daje!” penso alla romana…
E’ evidente che ci avrebbe visto bene insieme. Per la verità l’idea non era male, lei è una bellissima ragazza, con due occhi scuri profondi, alta ed elegante nei movimenti, ma con lei non c’è stato quell’impatto emotivo che avevo provato per Emilia. Mi viene spontaneo raccontargli la storia, e il modo troppo soffice con cui ci siamo lasciati.
“Sei un mona!” mi dice, guardandomi con quegli occhi furbetti. Lo invito a pranzo e, dopo un altro buon caffè, si riveste da palombaro, e riparte col suo motorino, sotto la pioggia, verso la comunità. Inizio la lettura del copione, che parla di una bambola contesa tra due bambine. Essendo evidentemente un testo rivolto ai più piccoli, scelgo elementi molto semplici e intuitivi, con colori vivaci. Realizzo il giorno stesso tre progetti, e il mio lavoro grafico è terminato. Il giorno dopo progetto un’incisione ispirata al testo teatrale.
Spero che il tempo finalmente si metta al bello, manca solo una settimana alla fine della vendemmia, e dovrò prendere delle decisioni importanti. La prima è la conseguenza di una voglia matta di riprendere lo studio degli scacchi, in vista di un importante torneo internazionale in jugoslavia. La seconda è l’esigenza di vedere i miei, se, data la distanza, una o due volte all’anno. La terza valutazione deriva da una mia antica idea, di iscrivermi all’università per studiare psicologia, una materia che mi ha sempre attirato. Decido che avrei studiato la materia, ma solo per mio piacere personale.
La domenica è il giorno della festa in comunità, appena arrivo sento le dolcissime note di un pianoforte, suona una ragazza disabile che, non avendo l’uso delle gambe, si aiuta con uno strano meccanismo collegato alle leve inferiori del piano, che vengono pigiate coi gomiti. Vengo rapito da quella melodia, e penso che quel che la natura gli ha tolto dalle gambe, il buon Dio glielo ha reso nelle mani. Ricordo quanto mi attirasse quel vecchio pianoforte nella grande stanza dell’asilo, le note dolcissime della mia vicina di casa, e i miei disegni infantili dove raramente mancavano quei tasti bianchi e neri, e ancora queste note che sento mi emozionano. Sto conoscendo pian piano il mondo dei disabili, le sorprese non mancano, ma non è finita qui: è la volta di un bambino autistico e della sua stupefacente memoria visiva.
Riesce a ricostruire ciò che ha visto per pochi attimi, siano essi una serie di numeri, lettere o forme, ed a eseguire complicati calcoli matematici. Ci invitano poi a recarci nel piazzale, dove comincia a suonare il complessino della comunità, e a consumare un ricco buffet. Uno dei ragazzi disabili mi si avvicina e mi chiede se, secondo me, lui possa invitare a ballare una graziosa ragazza, forse sorella di un altro ospite del centro, si fida del mio consiglio perché sono il grande amico di Beniamino, quindi uno di loro. Gli chiedo cosa stesse aspettando, e un attimo dopo li vedo ballare assieme. Io intanto scambio qualche parola con Laura, Beniamino e la direttrice che, evidentemente, mi vorrebbe coinvolgere in qualche iniziativa. Un’ora dopo si dà inizio alla premiazione degli atleti e dei vari gruppi. Poi di nuovo musica, e la cena ricca di specialità friulane: frico, polenta, brovada, salsicce arrosto, frutta, gelati, il tutto accompagnati dai tradizionali vini friulani: tocai, ribolla, schiopettino, e infine ramandolo. Poi un dolce tipico della zona, la gubana, poi di nuovo musica, e di conseguenza tutti a ballare.
Il giorno dopo riprende la vendemmia, col solito caos controllato, anzi amplificato perchè le piogge hanno guastato un po’ d’uva, e passiamo da una parte all’altra del vigneto, alla ricerca delle zone più colpite dalla muffa. Terminata la vendemmia, lavoro in cantina, poi in vigna mettiamo a posto pali e fili, in preparazione dei prossimi lavori, infine l’azienda ci concede una decina di giorni liberi. Con Beniamino decidiamo di fare una gita a trieste, alla ricerca di un gallerista disposto a proporre le mie incisioni. Il giorno dopo arrivo in comunità, lui mi impone la compagnia di Laura, io accetto di buon grado e partiamo. Lei funge da cicerone, e visitiamo posti storici di battaglie della prima guerra mondiale, provo un’intensa emozione quando vedo una grande lapide dedicata alla brigata sassari, e poi un’altra ancora, quanti cognomi a me familiari sono incisi in quelle pietre!!! Visitiamo qualche foiba, il che mi fa pensare a quanto discredito meriti la razza umana, quando compie orribili pulizie etniche. Nel vedere poi il paesaggio verso trieste, ammetto che le parole di Giorgio erano quanto mai esatte.
Una volta giunti alla bellissima trieste, Laura mi accompagna da un gallerista, suo conoscente, che accetta di commercializzare le mie incisioni. Visitiamo la città, che reputo una delle più belle d’italia, valichiamo il confine, dall’auto vediamo il grande porto, arriviamo a capodistria, poi un lungo giro verso le enormi grotte di postumia, forse le più estese al mondo, attraversiamo la zona di aidussina, battuta dalla bora, poi nova gorica, infine giù, nella valle dell’isonzo, ora limpidissimo, ma che immagino durante la prima guerra mondiale spruzzato di rosso, attraversiamo tolmino, facciamo sosta a caporetto, infine rientriamo in italia, verso cividale e la comunità, dove arriviamo a notte fonda.
Il giorno dopo iniziamo la costruzione della scenografia, che in tre giorni è già terminata, altri due giorni sono sufficienti a dipingerla con colori sgargianti. A quel punto incontriamo Angelo, il ragazzo autistico, e Laura gli chiede se sarebbe disposto a realizzare un esperimento, così, tanto per giocare, alla sua disponibilità propongo io un esperimento scacchistico, pur sapendo che lui non sa giocare. Prendo dalla macchina scacchiera e pezzi, che porto sempre con me, ne dispongo a caso una ventina, e gli chiedo se può tentare con successo di ricordare l’esatta posizione dei pezzi. Lui osserva per un paio di minuti, dà le spalle alla scacchiera, e ricostruisce la posizione senza errori; indica anche le coordinate delle caselle vuote e il loro colore! Un risultato stupefacente! Chissà quanti grandi maestri di scacchi vorrebbero possedere quella memoria visiva!
Ho ancora molto tempo libero, e il giorno dopo vado a trovare la famiglia di Adamo e Berta, scopro che lui ha tanti interessi e attività, e oltre ad avere competenze in settori lavorativi diversi, riesce anche ad avere vari hobby, quali la lavorazione del legno, e la realizzazione di splendidi bonsai, un tipo insomma che non si fa crescere l’erba sotto i piedi! Ha appena finito di costruire un barbecue, che inauguriamo per cena con carne arrosto. Trascorriamo una serata stimolante, senza cadere in banalità, usuali tra persone che si conoscono appena. Il figlio maggiore, Sirio, frequenta la terza elementare, mentre Cenzo, l’asilo La serata termina con l’assaggio di una forma di "casu martzu" accompagnato da un’ottima vernaccia sarda.
Il giorno dopo, giovedì, faccio il pieno di benzina alla macchina in jugoslavia, a prezzi nettamente inferiori ai nostri, poi mi avvicino al circolo. Vedendo le partite, mi accorgo che la nostra squadra è molto equilibrata, con giocatori pressoché allo stesso livello. Frequentano il circolo anche una dozzina di bambini, in preparazione ai prossimi campionati giovanili e studenteschi. Trovo che il circolo sia molto ben organizzato, e composto da persone apprezzate nella cittadina, possiede tra l'altro, cosa non da poco, una biblioteca scacchistica molto ben fornita.
Il giorno successivo assisto alle prove del gruppo teatrale della comunità: i ragazzi, a dispetto delle loro oggettive disabilità, si danno un gran da fare, con una mimica molto evidente, teatro dinamico, mi viene da pensare, quasi teatro gestuale. Hanno inserito sprazzi di danza, un ragazzo suona il flauto. Uno spettacolo completo, se non fosse che sono assenti i faretti, che avrebbero potuto creare giochi di luce, così importanti, se si vuol fare teatro moderno, ma forse questa non è la loro filosofia… Non avrei mai immaginato che un gruppo di disabili potesse realizzare uno spettacolo così dinamico, forse dovrei rivedere la scenografia, e trovare più spazi al suo interno, per agevolare i loro movimenti. E tra teatro, scacchi, incisioni, scenografia, e studio sui libri, trascorro il tempo che ho tolto al viaggio in sardegna. Mi accorgo di non stare male in mezzo al popolo friulano, hanno mantenuto la loro fierezza, il loro senso etnico, e il loro "fogolar furlan" è diffuso in tutto il mondo, esportato da un mezzo esercito che è stato costretto, suo malgrado, ad emigrare. Ma ora il vento della storia ha cambiato verso, ora i friulani tornano, impiantano aziende, e le loro attività offrono occupazione a italiani e abitanti dei paesi balcanici.
Ultimi di novembre, iniziano i lavori di potatura: venti persone impegnate tutte nello stesso lavoro. Con grandi forbici, appena acquistate, velocizziamo il lavoro, nel mio filare, faccio il grosso dei tagli, mentre Beniamino completa il lavoro. Essendo in anticipo sui lavori, l’azienda decide di concederci una decina di giorni di pausa, in vista delle feste natalizie, ma non prima di averci invitati alla grande cena di fine anno. Veniamo accolti in un grande e lussuoso ristorante, suona un gruppo che fa musica jazz, arrivano piatti raffinati in quantità industriali, non mancano le specialità friulane, assaggiamo tutti i vini prodotti dall’azienda, anche i più costosi. Il complesso cambia genere di musica, e si dà il via a un divertente karaoke. Scopro tra i colleghi insospettate doti canore, persino gli stranieri dimostrano di conoscere alla perfezione le più classiche canzoni italiane. Al momento di andar via ci si scambia gli auguri, e ciascuno torna a casa, qualcuno di noi barcolla.
Due giorni dopo inizia il super-torneo in slovenia, che fa ancora parte della jugoslavia. Sono iscritti una decina di maestri, e tre grandi maestri, tra i più forti al mondo, giocatori provenienti da tutta europa, un sudamericano, un indiano e un israeliano, due ragazze cinesi, e un’australiana. Un torneo internazionale? No, mondiale. Dieci turni di gioco, con due ore e mezza per ciascuno, in totale, dieci ore di gioco al giorno! Non è facile tenere sotto controllo la tensione per qualche ora, figurarsi affrontare un impegno così severo per così lungo tempo! La tenuta atletica di molti giocatori, a fine torneo, avrebbe deciso molte partite.
Dislocati nelle quattro pareti della grande sala, fanno bella mostra di sé, altrettanti televisori giganti, che avrebbero consentito al pubblico di seguire le quattro partite più significative. Sono presenti in sala sessanta scacchiere, sistemate in tre lunghi tavoli. I partecipanti, a ben guardare, sarebbero stati molti di più, ma lo spazio non sarebbe bastato. Il mio obiettivo dichiarato è conquistare il titolo di candidato maestro, ci sarei riuscito solo incontrando, e facendo punti, contro avversari più quotati di me: il sorteggio mi dà una mano mettendomi di fronte un forte maestro internazionale Jugoslavo. Perdo però in una trentina di mosse, senza opporre eccessiva resistenza.
Il secondo turno mi vede vincere con un prima nazionale, di non so quale paese dell’est. Dormo tutta la notte, tranquillo, e arrivo rilassato al terzo turno. Quella giornata sarebbe stata di grande importanza per me, ma ancora non immaginavo gli sviluppi che avrebbe avuto. La sorte, ancora una volta, mi dà una mano, mettendomi di fronte un candidato Austriaco. Inutile comunque giocare contro avversari titolati, è necessario anche fare punti! La partita si incanala su schemi straconosciuti, gioco automaticamente una ventina di mosse, mentre il mio avversario non gradisce la mia apertura e perde molto tempo ad analizzare. Do uno sguardo a uno dei televisori, e vedo che in terza scacchiera gioca, contro un grande maestro, una persona che mi sembra di conoscere, poi la telecamera effettua un primo piano su quel viso, e senza che lo volessi, mi sfugge, a voce alta, una frase:
“Che mi venga un colpo! Ma quella è.... è Emilia…è proprio Emilia!!!”
Immediatamente due arbitri mi si avvicinano, e uno di loro, con l’indice alzato, come per darsi più importanza, mi richiama verbalmente. Non so dire cosa abbia detto esattamente, ma la mimica era esaustiva. A questo punto ho fretta di terminare la partita e gioco attivamente, creando pressione sull’avversario, gioco il finale con un certo vantaggio posizionale e con grande vantaggio di tempo, e vinco la partita, frettolosa stretta di mano, e mi avvicino alla scacchiera di Emilia. Concentratissima sulla scacchiera, si accorge della mia presenza solo dopo un quarto d’ora. Dopo un primi momento di sorpresa, mi saluta con lo sguardo, così, come se fossimo senza vederci dal giorno prima. Sulla scacchiera si trova un po’ in difficoltà, ma ristabilisce la parità posizionale, con una serie di mosse “velenose”, e ottiene il più prestigioso dei pareggi.
“Ciao bella, complimenti.”
“Ciao Josto.”
“Hai giocato proprio bene.”
“Ho migliorato un po’ nel frattempo.”
“Dove alloggi?”
“In albergo, qui in slovenia, ma abito in friuli, lontano da qui”.
“Che emozione vederti!”
“Sono contenta anch’io.”
Le dico che mi farebbe piacere farle risparmiare i soldi dell’albergo, e la invito a stare a casa mia.
Lei accetta, non sapeva che abitassi nelle vicinanze.
Le dico che ho molto pensato a lei, e non solo ai tempi successivi al nostro addio.
“Perché, c’è stato un addio?” e’ la sua sorprendente risposta.
preso alla sprovvista, mi viene da balbettare qualcosa, è una sottile provocazione o un velato rimprovero? La psicologia femminile è molto diversa dalla nostra, ne resto sempre “spiazzato”, e non riesco a dire una parola, possibile che con loro bisogni sempre saper leggere tra le righe? Possibile che siano così complicate? E soprattutto, possibile che di fronte a lei mi venga sempre da balbettare? In quel momento mi tornano in mente i rimproveri degli amici Sardi, e la frase di Beniamino: “Sei un mona!” Al momento non penso ad altro che riconquistarla, ma la devo smettere di balbettare.
Il quarto turno la vede giocare con un maestro, mentre io gioco con un altro candidato, col quale pareggio. Stesso risultato per lei, che ora ha tre punti, mentre io ho due punti e mezzo. Il torneo che sta mandando avanti lei, è certo molto più significativo del mio, avendo già incontrato avversari molto forti. La accompagno in albergo a prendere le sue cose, e andiamo a casa; mentre preparo il divano per trascorrere la mia notte, lei mi fa desistere dall’intento, il letto a una piazza e mezzo sarebbe stato più che sufficiente per entrambi!
”Ho passato un brutto momento, e non solo per colpa tua.”
“Ma quali colpe?” protesto.
“Hai una sensibilità da rinoceronte!”
Penso che non riuscirò mai a capire le donne. Lei era stata la mia unica donna, e la mia esperienza in materia è molto scarsa, ho, è vero tante amiche, ma nessuna finora mi ha coinvolto come lei.
Il giorno successivo ci scontriamo entrambi con un candidato, lei vince ed io pareggio. Il sesto turno la vede giocare con il maestro internazionale, col quale ho perso la mia prima partita, hanno entrambi quattro punti, e giocano in terza scacchiera. Io gioco con un maestro croato, sono obbligato a non perdere. La partita di Silvia è complicatissima, come piace a lei, mentre la mia è schematica e prevedibile, ma devo essere pronto a rintuzzare le fiammate del mio avversario, che certo non si può permettere di pareggiare con un semplice prima nazionale. La partita è agevole da portare avanti, per ora, ed ho il tempo di seguire su uno schermo, la partita di Emilia; è tutto legato a un filo, condizione favorevole al tipo di gioco preferito da lei, nel pantano che si è venuto a creare, rischia addirittura di vincere! Non succede, la partita termina con un pari, come la mia. Le faccio i complimenti.
“Anche io a te.”
“Stai rischiando di vincere il torneo, sei a mezzo punto dal grande maestro che guida la classifica.”
“Penso che dovrò affrontare proprio lui, domani.”
E’ la prima volta che parliamo di scacchi, dopo esserci rincontrati, mi dice di aver già ottenuto la prima norma per diventare maestra, è cioè, nella classifica delle categorie, due gradini al di sopra di me. La serata è dedicata al racconto delle ultime esperienze, io con i miei molti impegni, lei con gli studi di psicologia all’università. Il giorno dopo la vede impegnata ad affrontare un maestro, ha evitato, per ora il grande scontro, mentre io gioco con un candidato, vinciamo entrambi. Ormai per lei è venuto il momento di confrontarsi con i più forti, io, con un punto in meno, navigo, per ora, nelle parti medio-alte della classifica. Come un verdetto rimandato più volte, ma inevitabile, ora lei dovrà giocare contro il grande maestro, che fino ad allora si è dimostrato il più forte, sono entrambi imbattuti, unici tra i centoventi partecipanti. In via del tutto eccezionale, in prossimità della partita, viene effettuata un’intervista ai due contendenti; Emilia dice di essere onorata di giocare con uno degli scacchisti più forti al mondo, mentre lui, facendole i complimenti, dice di temere le complicazioni che lei riesce a materializzare sulla scacchiera.
Io giocherò un’importantissima partita, contro un maestro, ma non potrò fare a meno di seguire la partita in prima scacchiera, attraverso uno dei grandi televisori. Il grande maestro, quando si presenta la possibilità, cambia quanti più pezzi possibili, per semplificare il gioco, confidando sulle sue doti, e sulla sua esperienza, a fine partita. Io entro in una partita molto complicata, con ancora tutti i pezzi, mentre la scacchiera di Emilia diviene sempre più vuota. Con la capacità che hanno i grandi campioni di sfruttare se pur minimi vantaggi, l’avversario di Emilia porta avanti la sua strategia, ma non è certo della vittoria, io invece, seppure soffro un po’ di pressione a centro scacchiera, per ora resisto. Il grande maestro esegue alla fine del centro partita tutta una serie di mosse “cattive” e “velenose”, molto forti, lei si difende come può, ma alla fine, avendo visto una continuazione perdente, stringe la mano all’avversario, in segno di resa, almeno dieci mosse prima dell’eventuale fine della partita.
Il pubblico rumoreggia, come per disapprovare la resa anticipata di Emilia, ma lei sa il fatto suo, ed esce da questa partita in modo elegante. Io riesco a pareggiare a fatica e lei, nonostante la sconfitta, ha inalterate le possibilità di conquistare la seconda norma, avendo incontrato tutti i primi in classifica, ed avendo ancora vantaggio su di loro. Ci sono, però, in agguato, con mezzo punto di svantaggio, gli altri grandi maestri, pronti a sfruttare un suo passo falso, oppure giocarsela contro di lei se il sorteggio li avesse messi di fronte. E il sorteggio, il giorno dopo, la mette di fronte a uno di loro: la cosa peggiore che le potesse capitare. Io dovrò incontrare addirittura un maestro internazionale, che fino ad allora aveva giocato ben al di sotto della sua forza. L’avversario di Emilia, vista la strategia vincente del precedente avversario, che oramai comanda più che stabilmente la classifica, cambia anche lui molti pezzi, con la speranza di giocarsi tutto nel finale, ma non ha la stoffa del leader della classifica, e si deve accontentare di un pari, come del resto il mio avversario, evidentemente demotivato.
L’ultima partita ci vede in ottima posizione, in funzione dei rispettivi traguardi da raggiungere, ma è necessario un ultimo sforzo per non vanificare tutto. Il sorteggio è benigno con noi, e ci mette a confronto due avversari non irresistibili, che fino ad allora hanno rispettivamente fatto mezzo punto in meno di noi, dobbiamo solo evitare il sorpasso, e giochiamo una partita prudente, e quando i nostri avversari, che devono giocoforza scoprirsi, per tentare il sorpasso, cercano di forzare più del dovuto il gioco, ne approfittiamo, e portiamo a casa la vittoria.
La premiazione vede Emilia ricevere la grande coppa del secondo classificato, e due buste gonfie di banconote, una come seconda assoluta, e l’altra come miglior candidata. Me la cavo benone anch’io, con una busta come migliore prima nazionale. Abbiamo conseguito i nostri obiettivi: seconda norma per lei, e approdo alla categoria di candidato per me. Cena in ristorante, ovviamente offre lei, poi rientro a casa, apro la busta: contiene all’incirca la metà del mio stipendio mensile, mentre le sue sono quattro volte più pesanti della mia. Le chiedo di stare per sempre con me.
“Vedremo” è la sua risposta.
Il pennello e la matita
Ho incontrato un prestigiatore. E' spagnolo. Si, lo so, oggi come oggi vanno di moda i greci, ma non posso dire che lui è greco se è spagnolo, di madrid. Mi ha detto che le parole sono come il coniglio che esce dal cilindro magico. Quando ho associato il suo nome, Joaquin, al termine prestigiatore, mi ha ripreso.
"Io sono un illusionista, impara a dare il giusto significato alle parole."
E' un artista di strada, ha girato il mondo in lungo e in largo, con la sua donna Carmen, e col suo incredibile furgone che chiamano Esteban. Ci sta di tutto, incredibile, una altra sua illusione. Dice spesso: "Prima pensa, poi realizza, se pensi difficile, realizzerai cose difficili, uniche".
Certe volte non lo capisco, e giochi di prestigio non ne so fare. Ma lui si. Mi raccontò che all'età di cinque anni subì una sorta di regalo, di illuminazione, che lui preferisce definire carisma. Si trovava, con suo padre, al museo madrileno del prado, di fronte a un dipinto del pittore fiammingo Jeronymus Bosch, intitolato il carro del fieno, un dipinto dalla forza evocativa sublime.
E' un artista di strada, ha girato il mondo in lungo e in largo, con la sua donna Carmen, e col suo incredibile furgone che chiamano Esteban. Ci sta di tutto, incredibile, una altra sua illusione. Dice spesso: "Prima pensa, poi realizza, se pensi difficile, realizzerai cose difficili, uniche".
Certe volte non lo capisco, e giochi di prestigio non ne so fare. Ma lui si. Mi raccontò che all'età di cinque anni subì una sorta di regalo, di illuminazione, che lui preferisce definire carisma. Si trovava, con suo padre, al museo madrileno del prado, di fronte a un dipinto del pittore fiammingo Jeronymus Bosch, intitolato il carro del fieno, un dipinto dalla forza evocativa sublime.
Non sa esattamente se svenne al cospetto della forza espressiva di quell'opera d'arte, che lui reputa essere la più significativa che l'umanità abbia mai realizzato. Quando si riprese da quel torpore indotto, si accorse di essere una persona completamente diversa, aveva nel frattempo ricevuto un dono. Oggi, non sopporta certi termini che uso, mi riprende continuamente, mi dice che le parole sono la risultanza dei pensieri, e se io uso un termine, anche imposto da chissachi, automaticamente penso che sia corretto. Quindi, continua, se io uso un termine che non mi appartiene, ma che mi è stato inculcato dalla cultura dominante, in quel momento sto ragionando come vogliono che ragioni. Mi fa l'esempio della parola razzismo. Se si usa quella parola vuol dire che il razzismo esiste, non è una invenzione. E invece no, è una costruzione dialettica, una illusione, un plagio mentale, che a furia di venire pronunciata diventa reale, e nel sentire comune lo è. Ma nella realtà, non esiste che la gente sia razzista, perchè non lo è, è un macroscopico plagio.
Mi fa l'esempio di una parola persino troppo diffusa nella mia terra: indipendentismo, mi invita diffidare dalle parole che terminano con "ismo", non sono parole che appartengono alla gente, sono termini inventati dalle elite culturali dominanti per sottometterci dividendoci. Mi chiede di esprimere un termine antico sardo che evochi quel tipo di parola, devo ammettere che non lo ho trovato, non esiste. E non esistono ismi in nessuna lingua ancestrale. Obietto che ormai è una parola talmente diffusa tra la mia gente, che è diventata "nostra". Mi dice che sono un inguaribile condizionato, che usando quel termine, il cervello innesca processi istintivi che portano ad accettarla, accettando il significato intrinseco che evoca: dipendenza. Noi, mi dice, nasciamo liberi, non dipendiamo da nessuno, il potere adotta strategie che mirano ad auto considerarci dipendenti da esso, ma nel profondo della nostra mente esiste una altra parola, ben più potente, la parola libertà.
Mi indica un passante, che con l'aria preoccupata, con passo svelto, e con una miriade di scartoffie sotto braccio, si dirige verso il municipio, per soddisfare la necessità che ha il potere di condizionarci, di farci perdere il nostro prezioso tempo, e magari di spillarci un po' di soldini. Lui, e la stragrande maggioranza della popolazione, accetta le imposizioni del potere, altra costruzione fittizia, il mondo è sottomesso per questo motivo. Noi, la gente, riconosciamo i loro mantra, ma non lo dovremmo fare. Mi spiega che, dopo il contatto con l'opera d'arte custodita al prado, provò a dipingere, ideò un quadro, prima ne decise la struttura costruttiva, poi usò la matita per delineare le linee essenziali, infine distribuì i colori. La scrittura, un discorso, un quadro, una immagine mentale, sono simili, nascono da una idea, vengono abbozzate prima nella mente, e poi nella realtà. La manualità posseduta certificheranno se la realizzazione è esteticamente valida, l'idea iniziale se è comunicativa, la struttura generale se è funzionale allo scopo. Ma se la mente non è libera di ragionare autonomamente, allora il testo, il quadro, o il discorso, non possono essere originali, sono solo scopiazzature. Ecco cosa fa gente comunemente, scopiazza.
Mi invita a liberare spazi sempre più ampi dalla mia mente, gli spazi attualmente utilizzati dalle informazioni del potere, essi devono essere sgombrati per far posto ai nostri pensieri e ragionamenti che ci vengono dal profondo del nostro intimo, spazzature melmose che hanno inficiato, soppresso, quei processi menmmonici naturali che madre natura ci ha concesso, e che qualcuno, certo molto furbo, ma che non ci vuole bene, ha invaso. Riprendiamoci la nostra naturalità, rifiutiamo i loro meccanicismi, dal suono metallico, sono innaturali e penalizzanti, oltre che complicantizzanti, la semplicità ci è congeniale, torniamo alla filosofia eterna che la civiltà contadina ci ha insegnato, la filosofia più vicina all'umanesimo più puro e genuino. Loro, le fetenzìe mondialiste, senza il nostro lavoro, senza il nostro cibo, senza il nostro ingegno, non saprebbero nemmeno come sfamarsi, come attingere acqua, senza di noi morirebbero in pochi giorni, sparirebbero, evaporerebbero, loro sono il vuoto, noi la concretezza, liberiamocene, liberiamoci dalle loro imposizioni, dalle loro idee, dalla loro logica fasulla, dal loro cibo che ci sta uccidendo, e liberiamoci anche dalla loro moneta. Mi raccomando : libertà, non indipendenza.
E passano i giorni.
E trascorrono, infuocati giorni di rabbia.
E scivolano parole dette con l'anima , e intese con distrazione.
E si vive, e si lavora, e si suda, di un sudore caldo e inutile.
Hai lavorato, hai dato. Hai speso fatica.
E pensi di aver sudato per tutti, e invece
non lo hai fatto nemmeno per te stesso.
Non lo hai fatto nemmeno per i tuoi figli.
E passano i giorni, i decenni....
E quando , stanco, sai che il tuo compito è terminato
.............ti chiedi: .... perché?
E allora scopri che qualcuno ha rubato il tuo tempo.
Scopri che sei arrivato, senza essere veramente mai partito.
Spegniamo gli illuminati.
...E la notte sogno, sogno che nessuno abbia bisogno di essere difeso, che nessuno prenda le mie decisioni, sogno di essere parte di una grande famiglia, e quando siamo a tavola, nessuno che decida di appropriarsi del boccone migliore, lasciandolo così all'ultimo arrivato. Che nessuno abbia più del superfluo. Che a nessuno manchi l'indispensabile. Perché vivere senza assilli ti lascia il tempo per pensare a come progredire. Sogno l'estinzione di grandi industrie globalizzate, dai minuscoli, meschini e gretti interessi. Sogno il sorriso della gente stampato in volto, perché nessuno abbia il diritto di invidiare il prossimo, persi in questa galassia che illumina ogni vita, immagino il mondo senza contrasti, quella si, è luce vera. Sogno cultura per tutti, non istruzione, sogno un lavoro che non crei fatica , né fisica, né mentale. Sogno che alfine si spenga la fiamma malefica degli illuminati, iniqua, meschina, egocentrica e innaturale, ben sapendo che i tornaconti che otterrà chi si ostina a tenerla accesa, saranno miserevoli e illusori, invece di chiedersi cosa stiano a fare al mondo. Sogno naturalità, senza situazioni contorte, un incedere a misura d'uomo, senza inutili forzature, sogno che la scienza diventi etica.
Nel dormiveglia dell'alba, penso che mi contrasteranno, ma vengo svegliato dal luminoso cinguettare degli uccelli.
Chi l'avrebbe mai detto?
E' tantissimo tempo che lo conosco, ormai ci possiamo considerare compagni di sorte, e oggi lo ho visto buttare al vento tutte le certezze di una vita! Perchè poi, non mi è dato di capire; ho bisogno dei miei tempi biblici, a questa età non sono più reattivo come una volta. Tutto il nostro codice esistenziale, il mio ma soprattutto il suo, assurdamente frantumato in un solo attimo!
Ma andiamo all'inizio della narrazione. Ha dedicato tutta la sua vita al tricolore, sapeste quante volte lo ho visto piangere di commozione al cospetto di quei colori, ha sempre dimostrato un profondo attaccamento ai compiti che il vivere civile ha voluto assegnargli. Compiti eseguiti con passione, dedizione, e competenza. E ogni volta che la nazione otteneva degli importanti riconoscimenti internazionali, sia politici, di immagine, o sportivi, esso, il simbolo, era sempre li a sventolare, e di concerto, automaticamente, vedevo le lacrime di pianto, di commozione del mio amico. Simbiosi perfetta,
Simbiosi perfetta, mi viene da dire, l'anima ammantata di tricolore. Due terzi di secolo è durata questa situazione, in ottemperanza all'amore per la bandiera della sua nazione, alla logica che il diritto naturale concedeva, al suo stesso stile di vita, colorato costantemente dal verde, dal bianco e dal rosso. Sessantasei anni di pianti. Pianti con lacrime calde e copiose.
E poi oggi il colpo di scena, mi chiede, al telefono : "Posso venire a trovarti a casa tua?"
"Naturalmente si " rispondo.
"Mariano", mi dice, "oggi ho capito una cosa, ho sempre creduto che quelle lacrime fossero di commozione, oggi sono certo che quelle lacrime per quella bandiera, dentro il mio intimo, sono sempre state di commiserazione, di compassione, di intolleranza."
Dopo un buon caffè, come si usa tra amici, mi lascia dicendomi: "A buon intenditor poche parole, e soprattutto poche lacrime per chi non le merita". Sto ancora a pensare cosa abbia voluto comunicarmi.
Dedicato ad un mio carissimo amico con affetto.
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Callentori de Sardinnia
Callentori de fradis in gherra. Fogu me in manus pro sa terra mia. Manus a celu, a circai fragu friscu de muta. Castiai is ogus de is fradis, cumprendi ca adessi fintzas a sa fini. Juramentu che balentes shardana, Libertadi fintzas a sa moti. Mamma Sardinnia, custa est promissa. Fintzas a sa moti, fintzas a sa libertadi .
Il calore della mia nazione. Sentire il tepore del contatto con i miei fratelli di lotta. Scottarmi le mani al fuoco della passione per la mia terra. Sollevarle, quelle mani, in cerca del vento dal profumo di mirto. Guardare negli occhi i miei fratelli, e capire che insieme resteremo sempre. Un giuramento da indomiti guerrieri shardana, guerrieri balentes. Libertà fino all'estremo sacrificio, fino alla morte
Madre Terra, questa è una promessa. Fino alla morte o fino alla libertà.
Offida.
Primissimi anni 2000. Mezzo secolo fa, ma i ricordi di quella avventura sono vivi in me. La cittadina è graziosa, raggiunta col mio camper 238 fiat, di antidiluviana memoria, l'ambientazione, racchiusa su territori quasi completamente ricoperti da vigneti, mi trasmetteva immagini medioevali, e il verde dominava dappertutto, interrotto solo da qualche orrenda calanca. Inoltre Offida è sede di un torneo di scacchi che attendevo da molto tempo. Dovevo dimostrare, soprattutto a me stesso, quale era il mio valore in quello sport. Presi l'impegno con il massimo della determinazione, dovevo fare il salto di categoria. Cominciai benissimo il torneo, due vittorie e un pareggio. Il quarto turno mi mise di fronte ad un giocatore che poteva vantare nei miei confronti la differenza di ben tre categorie superiori alla mia. Giocai per il pareggio, cosa che raramente mi capita, ma quel divario troppo evidente mi metteva soggezione. Infatti uscii dall'apertura malconcio, seppure in parità di materiale, la mia posizione era drammatica, avevo a disposizione pochissimo spazio per poter manovrare, e il mio re era a contatto troppo ravvicinato con i pezzi avversari.
Ma non mi rassegnai ad una sconfitta troppo rapida, e mi impegnai a vendere cara la pelle, mantenni il mio sangue freddo e mi difesi con le unghia e con i denti, come si suol dire. L'impresa, per il mio avversario, sembrava agevole, ma la mia determinazione e il sangue freddo che generalmente mi viene riconosciuto dai colleghi scacchisti, alla fine prevalsero, e intravvidi un rischioso controgioco (per me e per il mio avversario) che mi avrebbe consentito almeno di ampliare gli spazi di manovra.
Eseguii, dopo breve riflessione, una mossa dettata più dall'istinto di conservazione, che da ponderati ragionamenti, e non solo raggiunsi il mio scopo, ma dopo una sequela di mosse che ancora oggi ricordo come entusiasmante, per via della forza distruttiva dell'azione combinata dei miei due cavalli, lo costrinsi alla resa. Ricordo ancora il gesto stizzito col quale abbandonò la partita.
Il giorno dopo mi misi a passeggiare, in direzione della sede del torneo, concessa per l'occasione da un gruppo di donzelle che usavano quegli spazi per esercitare la loro passione, eccellenza della cittadina marchigiana, il ricamo con la tecnica del tombolo. Ma non di tombolo si parla, si parla di scacchi, e i miei pensieri erano tutti rivolti al quinto turno. Il caso mi portò a passare di fronte alla sede degli scacchisti offidiani, decisi di entrare e l'immagine che vidi, e che vedo ancora adesso, era la disposizione esatta dei pezzi, riportava la mia partita del giorno precedente. Tutti, dal primo all'ultimo degli astanti, precedettero il mio saluto, erano una decina di scacchisti, impegnati a commentare la mia partita. Alla scacchiera erano di fronte il mio avversario del giorno prima, e uno dei più forti giocatori italiani. Mi disse che la mia partita era persa, se il mio avversario avesse giocato correttamente, gli chiesi di dimostrarmelo, mi accomodai di fronte a lui, e analizzammo profondamente una miriade di varianti, ebbene, nessuna di esse portava alla mia sconfitta, mentre, quando analizzate da loro, decretavano la vittoria senza problemi del mio avversario. Arrivammo alla sede del torneo, quella decina di persone, con quasi un'ora di ritardo, nessuno di noi avrebbe rinunciato a seguire quella dettagliata analisi della partita. Proseguii il torneo alla grande, terminai con una sola sconfitta, e per un nonnulla non mi riuscì l'impresa di fare il doppio salto di categoria. Conservo ancora, gelosamente, il trofeo ricevuto. Oggi i miei impegni per il nobil gioco, si sono ridotti drasticamente, la passione che dedico alla lotta per la libertà del mio popolo, ne ha preso il posto. E per concludere il breve racconto, affermo che, sfruttando una similitudine con quella partita, seppure la lotta per la costituzione dello stato di sardegna sembra proibitiva, con la determinazione che ci contraddistingue, con la passione che mettiamo nel nostro agire, con le competenze e le eccellenze che ci onorano di essere al nostro fianco, noi raggiungeremo il traguardo, esattamente come feci quel giorno ad Offida.
Morte di un rettile
Nessuna celebrazione, quello che è ineluttabile succederà, non può essere altrimenti, ormai è chiaro che il rettile agonizza, nessuna autocelebrazione, beninteso, anche noi siamo in cammino verso la conoscenza, anche noi dobbiamo ringraziare qualcuno, quello che si fa, che si scrive, non ha secondi fini, se non cercare di trasmettere competenze, informazioni, non plagiare o convincere, solo esprimere il nostro punto di vista, giusto o sbagliato che sia. Visioneris, pensiamo di esserlo, forse qualche avvenimento, per noi, ha un sapore diverso da quello che un altro può percepire, forse a volte abbiamo anticipato nella mente e negli scritti, un avvenimento, magari abbiamo pensato: come mai non hanno ancora effettuato una certa azione?
E magari quella azione, dopo poco tempo, viene eseguita ( o commessa).
Abbiamo capito una cosa, forse una soltanto, che il mondo è dominato da una manica di criminali che dispongono della vita degli abitanti di questo martoriato e ingiusto pianeta.
Tutto il resto, il nostro pensiero, è conseguenziale.
Che le risorse che truffaldinamente continuano a nascondere, stanno per essere disponibili a tutti.
Un grande risveglio collettivo è in atto, basta poco perchè all'umanità sia evidente che è stata tarpata ogni possibilità di umanesimo e di progresso, e allora verranno fatti i conti, chi ha impedito una vita serena, per sue mire personali di potere, verrà processato e condannato, i loro meccanicismi ( kalergi, dulles, gender, scarsità, truffa monetaria, esproprio di sovranità, infelicità indotte ) niente possono di fronte ad una umanità naturalmente risvegliata.
Di fronte ad una umanità che fa del rispetto per il pianeta, la naturalità e la semplicità, le sue armi più potenti.
Il dominio del male sta per finire, stiamo attenti ai colpi di coda del rettile morente, e tutto si risolverà per il meglio, per un nuovo, sereno umanesimo, e quando ogni nazione si costituirà in stato, primo passo necessario, si potrà pensare ad un nuovo sistema planetario più giusto, un nuovo sistema ancora da studiare, il sistema delle nazioni, dove ciascun popolo possa esercitare la sua sovranità e le sue tradizioni.
Riteniamo che questa seconda fase, non spetterà alle nostre generazioni eseguirla, noi ci accontenteremo solamente di dare il colpo di grazia al rettile mondialista.
Bentu de sardinnia.
Su bentu chi sfollada ibixi e ollastus, mi potada is nenias da sa genti mia, bentu estu chi mi potada is prantus de dabori da sa natzioni mia rurali e pastorali. Prantus de dabori de sa natzioni mia invadia e offendia. Su bent'e sobi mi potada boxis de casteddu, sa bidda prus pagu sarda chi esistidi. Genti pagu sarda e meda italiana, dorroberis in jacca e cravata. Su bentu da s'est mi portada saboris de muta, e de uraniu e toriu. Mi potada is frastimus de una mamma chi prangidi su fillu motu de radiatzionis allenas e malaitas. Su sulcidanu mi potada sonus de gherra, gherra contras a sa pobera genti, ma ollu sighiri a bivi ancora innoi. Ollu bivi ancora in custa terra, olli sighiri a gherrai, mancai puru. Non timu sacrifitziu, chi ada a essi bona cosa po' sa natzioni mia. Mancai puru sa genti mia siada binta e disisperada. Su bentu tirada forti in pitzus a sa terra mia, e portada su mabi de su mundu, mabesa allena, si spingidi a sa rassegnatzioni, du sciu beni, cumenti du scisi tui puru. Ma puru su chi scrieus e naraus fonti fueddus in biaxi, si frimmanta, donanta stoccadas, ndi preninti su logu, portaus da su bentu. Preneus su mundu da fueddus fortis e justus, da fueddus de ribellioni. Non est ora da devastai tasteras, poita fintzas a candu da sas usaus contras a is fetentzias, su chi naraus e scrieus, est cumenti a is puntas de ossidiana, fainti crepai su nemigu a bellu a bellu.
Il vento che piega le querce mi porta i lamenti della mia gente, il maestrale mi porta la nenia scaturita dalla sofferenza della mia nazione contadina e pastorale. Il libeccio mi porta suoni e voci che provengono dalla città meno sarda che esista, contrada comandata da finti manager, arrampicatori, faccendieri, ignobili politicanti e ladri in giacca e cravatta. Il vento dell'est, mi porta odori di mirto e uranio e torio, mi porta il lamento di una mamma che piange il suo piccolo ucciso come un agnello sacrificale da radiazioni malefiche e inutili. Il vento sulcitano mi porta suoni di guerra, suoni di una inutile guerra, una guerra combattuta in sfregio agli indifesi di tutto il mondo, voglio continuare a vivere in questa terra nonostante, voglio combattere per la mia madre terra nonostante. Non ho paura del sacrificio, se ciò sarà utile alla mia gente, nonostante. Nonostante la mia gente, inetta, ignava, e rassegnata.
Il vento soffia forte sulla nostra terra, e ci porta tutte le nefandezze del mondo, e tanta malvagità, e ci invoglia allo scoramento, lo conosco, come lo conosci tu, ma anche le nostre parole scritte viaggiano, e si fermano, agiscono, e proseguono, dappertutto invadono; inondiamo di parole sagge il mondo e la nostra isola, di parole ribelli, non distruggiamo ancora le nostre tastiere, perché finché le usiamo contro di loro, i nostri messaggi sono come le frecce di ossidiana ... fanno crepare il nemico lentamente.
Parlavano in continentalese
Un paio di giorni fa ero in aeroporto, in attesa dell'arrivo del volo che riportava mia figlia adorata in terra di Sardegna. Dato che mi stavo annoiando, visto il ritardo biblico, vedo un bar e sento il suo classico odore di caffè, un richiamo irrefrenabile per jolao. Decido di assaggiare un buon caffè, subito dopo arrivano un nutrito gruppo di militari, e dato che li ho sentiti parlare in continentalese, chiedo loro come mai fossero in sardegna.
"Eravamo in esercitazione".
"Esercitazione de che? Vi divertivate a sparare razzi e bombe a mano? "
"Di tutto, sbarchi, tiri, abbiamo fatto tabula rasa".
"Vi posso chiedere una cosa, ragazzi, senza che vi offendiate?"
"Certo, tu fai la domanda e noi rispondiamo".
"Avete lasciato il posto almeno come lo avete trovato, o siete venuti per stuprare la terra di Sardegna?"
"Eh, qualche buca la abbiamo fatta"
(Risatina)
"Allora, ragazzi, prendetela come vi pare, se venite in Sardegna per vacanza, ad ammirare posti che vi lasciano a bocca aperta, noi siamo onorati di accogliervi, ma per conto mio vi dico che se avete altre intenzioni, è meglio che restiate in continente, la Sardegna è un immenso, sacro santuario, il sito archeologico più importante al mondo, e voi non dovete permettervi di sbarcare qui nemmeno per giocare a freccette".
Storiella semiseria. Quattro amici devono decidere di mettere in atto un certo programma ambizioso, che però ha bisogno di precisazioni e lunghe discussioni. Decidono di vedersi il giorno dopo, decidono anche di uscire senza ombrello dato che le previsioni del tempo sono favorevoli. Ma le previsioni non sempre sono precise, e il giorno dopo piove a dirotto. Due di loro, coerenti e intransigenti, escono senza ombrello, così si era deciso e così bisogna fare, se si vuole essere omines balentes, non si disobbedisce mai alla parola data. Dei veri e propri lupi della steppa. Gli altri due, forse più pavidi, malaticci e gracilini, si portano appresso ciascuno il proprio ombrello. Il giorno dopo, i quattro discutono l'argomento preventivato, nessuno si bagna in quanto due ombrelli sono sufficienti per riparare tutti. Scampato il pericolo, i quattro decidono di vedersi per ulteriori puntualizzazioni, viene confermato il piano A, già precedentemente deciso. Esso prevede di uscire senza ombrello, qualsiasi siano le condizioni atmosferiche. Viene anche proposto inusitatamente il piano B, che prevede quattro ombrelli. Il piano B viene scartato a priori, senza nemmeno essere stato discusso nei dettagli, viene detto di straforo che il piano A è più importante, quindi bisogna adottare il piano principale. I due timorosi malaticci gracilini affermano che se avesse piovuto non sarebbero andati all'incontro.
Vengono tacciati per questo di pusillanimeria, se non addirittura di tradimento, un vero uomo segue sempre il piano A, un tempo da lupi non può mai intralciare i buoni propositi, viene detto che noi siamo più forti di qualsiasi avversità, e la determinazione e l'onore di rispettare a puntino la parola data sono sacre. Questa storiella mi è stata raccontata da mio fratello, lui porta sempre e comunque l'ombrello, come pure io.
Naturalmente ogni riferimento a fatti realmente accaduti, lupi e personaggi compresi, è da ritenersi puramente reale, ciò di cui si è scritto non è da ritenersi frutto di fantasia, quella non ci manca comunque, come pure non ci mancano le giuste soluzioni, quelle che forse mancano, insieme ad un sano raziocinio, a chi sceglie di uscire, in un giorno di pioggia, senza ombrello.
Mi desto
Mi desto devastato da orribili incubi. Ho sognato che uno stato ha buttato fuori di casa un suo cittadino. Meno male che uno stato così iniquo non esiste. Ho visto, nel sogno, una vecchia che rovistava nei cassonetti, devastata dalla fame. Meno male che una società così disumana non esiste. Ho visto gente impunita, dopo aver sottratto milioni, ho visto un giudice condannare chi aveva rubato quattro mele. Meno male che giudici così ignobili non esistono e non possono esistere. Ho visto forze dell'ordine bastonare povera gente, che non chiedeva altro che i propri diritti. Ho visto, ma non ci credo, perché non è possibile. Ho visto la fetenzìa di venti famiglie dominare su otto miliardi di esseri umani. Bisogna che mi desti dall'incubo, sto farneticando. Mi desto, e dal sonno mi trasferisco in una altra dimensione. Assorbo vibrazioni positive, mi invade la luce. Vedo le nazioni che spodestano gli stati. Vedo una scuola che fa il suo dovere, preparare alla vita cittadini razionali e sovrani. Vedo la distruzione di tutte le idee consumistiche e globaliste, vedo i popoli regnare sovrani a discapito delle oligarchie. Vedo governi gestiti da ciascun cittadino, vedo pseudo rappresentanti del popolo buttati fuori a calci da dorati parlamenti, e disonorati davanti a tutti. Vedo giudici spodestati, ciascuno di noi è giudice e legislatore, tutte le leggi sono scritte nel nostro intimo. Vedo consuetudini naturali fare un grande falò di leggi scritte da uomini fallaci. Immagino contrade abitate da re e giudici di se stessi, immagino il diritto che la natura ci ha dettato, distruggere ogni codice giuridico scritto in ossequio al male. So che questo pianeta è dominato dal male, ma so anche che il bene, alla lunga vince sempre. Il popolo vince sempre. Non vorrei più vedere parlamenti che decidono in sfregio alla gente. Non vorrei più vedere tribunali che decidono in sfregio alla gente. Non vorrei più vedere tutori dell'ordine, essi non sono utili in una società giusta e logica, dove la gente domina sovrana. Sogno tutto questo, così intensamente, che lo vedo realizzato, è davanti ai miei occhi un mondo senza sfruttamenti dell'uomo sull'uomo, sugli animali, sulla natura, vedo il ritorno prepotente della civiltà contadina, di un nuovo umanesimo, so che le mete che l'umanità raggiungerà, saranno eclatanti, una volta azzerate le fetenzìe. Vedo la luce, e luce sia!
Zirogna
Non chiedetemi come sia potuto succedere, perchè non lo so, ma è stato dimostrato scientificamente, e incontestabilmente, che gli esseri che abitano questa terra non muoiono mai. Alla mezzanotte e un minuto secondo del primo giorno dell'anno 2017, un componente delle famiglie Borangiu, ebbe una intuizione, una folgorazione, una illuminazione. In un attimo capì che una nuova, infallibile strada di libertà, si sarebbe dischiusa per la gente. Dimostrò che quella sua vita attuale non era la prima, dimostrò con prove inattaccabili le sue innumerevoli vite passate. La paura della morte si affievolì, prima in se stesso, poi nella sensibilità della gente, che in breve tempo si liberò da tutti i lacci che una simile ipotesi comportava. La gente, liberatasi dalla paura della morte, divenne coraggiosa e si ribellò al sistema. Capì che il potere usa il concetto di morte per tenere sottomessi gli esseri umani. E allora tutte le imposizioni degli stati, vennero disattese. La gente non pagò più imposte, si ribellò in maniera cruenta, il potere fu molto duro con i rivoltosi, molti perirono per mano degli stati, ma ricomparvero subito dopo, più motivati e combattivi di prima sotto altre spoglie. La gente rifiutò il consumismo e la globalizzazione, non riconobbe le leggi statali, usò il baratto e una miriade di monete popolari, i soldi privati stampati dalle oligarchie, subirono un tracollo impressionante, così devastante che furono tolti dalla circolazione. Un altro dei motivi del condizionamento sulla gente era stato debellato. Dalla sardegna, patria dei Borangiu, partirono delle azioni che in brevissimo tempo si diffusero in tutto il pianeta, la gente, non riconoscendo le leggi italiane, adottò il diritto naturale, quel diritto che tutte le Genti del mondo riconoscono, una giurisprudenza semplice, non scritta, intuitiva e soprattutto etica. La prima azione fu quella di arrestare buona parte degli oligarchi mondialisti, presenti in sardegna per vacanza. Furono arrestati e processati anche politici e giornalisti collusi con le fetenzìe, manager di multinazionali che avevano devastato la vita di tante persone, petrolieri e faccendieri, furono arrestati e condannati duramente, coloro che avevano comprato alle aste giudiziarie, mettendo sul lastrico intere fasce di popolazione sfortunate. Il regno del male terminò così il suo corso, e una nuova era di progresso anche umanistico era alle porte, la data dell'inizio di tutto questo la abbiamo già scritta, quello che non abbiamo spiegato è la traduzione in lingua italiana del nome antichissimo Borangiu, che significa Salvatore. Tutti gli arrestati, tra i quali figuravano anche i maggiori membri delle fetenzìe, furono rinchiusi in alberghi a mille stelle, appositamente costruiti nel gennargentu, e contribuirono allo sviluppo del turismo in sardegna, vennero nutriti a pane e acqua, e sommersi delle loro stesse banconote. La gente di tutto il pianeta veniva in sardegna, per "ammirare" i membri delle oligarchie, un tempo tanto potenti, ma ormai ridotti in cattività, molti dei visitatori acquistarono la classica frusta sarda chiamata zirogna, costruita con la pelle di un altro tipo di membro, membro equino o bovino, e al modico prezzo di qualche monetina, dispensava ai fetenti delle salutari "zirognate".
Così finisce la storia, narrazione non fantasiosa o delirante, badate bene, tutto questo, statene certi, succederà.
2024
Esisteva in europa, un agglomerato di gente e nazioni che qualcuno ebbe la sfrontatezza di definire popolo europeo. Esisteva in italia, un agglomerato di gente e nazioni che qualcuno ebbe la sfrontatezza di definire popolo italiano. Esisteva in sardegna, un agglomerato di gente che qualcuno ebbe la sfrontatezza di definire sardi. Ogni 5 anni andavano a votare, credevano di esercitare il loro diritto di decidere, e non si accorgevano che la democrazia, nell'isola, e dappertutto nel mondo, era sospesa. Come delle pecore, votavano personaggi collusi con le peggiori espressioni del neoliberismo più sfrenato, che avevano la sfrontatezza di definirsi di sinistra. La gente era esperta di tematiche di mercato (calcistico) , di politica (politica italiana, naturalmente) , di economia (tutti a osannare il made in sardinnia, salvo affollare i centri commerciali delle multinazionali) , di cultura (isola dei famosi e grande fratello imperversavano nelle menti dei sardi), era esperta di strategie (calcistiche e cestistiche), aveva il dilemma di scoprire perchè gli investitori non prendessero in considerazione la sardegna, la gente aveva dimenticato chi erano i suoi antenati, e facevano risalire la propria storia e le proprie origini ai mantra televisivi e scolastici imposti dall'italia. Molti di loro, udite, udite, si consideravano italiani, ed erano fieri della loro italianità. I movimenti indipendentisti imploravano continuamente il permesso all'italia di defilarsi, di concedere la libertà alla nazione sarda. A loro piaceva giocare con le regole del colonizzatore, che vero similmente non era così fesso da concederla.
Alcuni movimenti di liberazione avevano capito che solo col diritto internazionale la nazione sarda aveva la possibilità di diventare stato. Ma erano così ininfluenti, così isolati, e così privi di comunicatività, che risultavano stagnanti e inoperosi.
E poi venne una novità, che avrebbe potuto cambiare tutto, fu costituito un fronte di liberazione che avrebbe dovuto adottare esempi di decolonizzazione, ma restò inoperoso per molti anni, i loro fondatori ritenevano che i sardi non fossero pronti per la libertà, ma nel contempo cercavano di instillare nelle menti dei sardi l'orgoglio di appartenere ad una grande nazione, spiegarono la grande truffa delle elezioni e della moneta. E fino a che la gente non capiva, preferirono restare cauti, e semi invisibili. Stando così le cose, ritenevano che i sardi non avevano diritto ad essere liberati. E poi essere liberati suona strano, lottare per la libertà suona meglio. Ma i sardi questo non lo capivano, qualcuno sperava nel coraggio di altri per la loro liberazione, altri speravano che la loro condizione potesse migliorare, del resto la televisione delle oligarchie diffondeva il concetto che le cose si sarebbero messe a posto. Quando le televisioni parlano di magnificenza, di futuro illuminato, bisogna preoccuparsi, l'unica magnificenza presente era l'assalto mattutino ai cassonetti della spazzatura. Intanto i partiti indipendentisti continuavano a sperare nella benevolenza italiana, e i movimenti di liberazione languivano per anni, posseduti da colpevole stagnazione. Siamo nel 2024, sono dieci anni che la situazione non cambia, nemmeno il fronte, fondato otto anni prima, riesce ad essere incisivo, a parte il lavoro di comunicazione egregiamente svolto. Peccato che la gente non riesce a capire le potenzialità dirompenti dell'azione del fronte.
La gente continua a frequentare le scuole italiane, a guardare le televisioni italiane, a seguire i campionati italiani, a sperare negli investitori stranieri, a reclamare privatizzazioni, a usare monete private, continua a votare alle elezioni italiane, ad assumere cibi e medicine fornite dalle multi nazionali, a dimenticare sa limba, continua a star bene nel recinto, e sperare nell'europa, nelle sostituzioni dei popoli, e nel consumismo. Anche col frigorifero e la dispensa vuota, i cieli graffiati, il conto in banca penoso, siamo certi che fino a che avrà i soldi per pagare l'abbonamento a mediaset premium, il popolo sardo ( se così si può definire ), non si ribellerà di certo. E continuerà ad andare a votare.
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