martedì 10 marzo 2015

RACCONTO : Nel borgo di Jippis


Non sempre le favole hanno una qualche attinenza con la realtà, questa che vado a raccontarvi è così strana che non è possibile che sia successa veramente.
Me la raccontò un vecchio saggio, di fronte al tepore del camino caldo e scoppiettante di una buia e fredda serata di inizio inverno di molti anni fa.
Non so come mai mi sia venuta in mente oggi, ma così è, mi appresto a scriverla perchè non voglio perdere il ricordo di quella narrazione.
Il paese di Jippis è così strano che si stenta a credere che esista o sia mai esistito, è posto in riva ad un fiume di colore grigio scurissimo, con striature di colore indaco sporco, le cui acque portano con se tanti filamenti bianchissimi e fosforescenti, che qualcuno dice siano generati da stormi di giganteschi ragni volanti così grandi e numerosi che a volte oscurano il sole col loro passaggio.
Non che il sole splendesse più di tanto nel paese di Jippis, no, è un borgo dove la luce entra con difficoltà, circondato da alberi giganteschi, altissimi e incredibilmente vigorosi, che lasciano passare solo qualche raro fascio di luce.
Le catapecchie di cui è composto il borgo, circondano una grande costruzione un po' meno fatiscente delle altre, ma sgangherata anche essa.
Vi abita quello che definiscono il capo villaggio, riconosciuto come tale, solo per il fatto, che da giovane, riuscì ad uccidere tutti i suoi fratelli, più grandi di lui, ma evidentemente meno forti, meno scaltri, e meno malvagi.
Ma tant'è, comanda lui, e per mantenere quello status racconta di essere continuamente in guerra con nemici più o meno immaginari, costruiti nel suo cervello malsano con l'obiettivo di mantenere il potere, molti hanno creduto a quella panzana, alcuni no.
Lo chiamiamo potere per convenzione, ma è soltanto una aleatoria espressione più virtuale che reale.
Una manifestazione di intenti che nulla ha a che vedere con la realtà.
Zittisce continuamente tutti, vuole parlare solo lui, il suo atteggiamento preferito è interrompere chi sta facendo una tranquilla discussione, del resto deve in qualche maniera compensare la sua totale mancanza di logica con la prevaricazione, non reggerebbe certo un sano confronto se impostato sulla razionalità.
Si racconta, e questo è fatto certo, nella sia pur fantasiosa narrazione, che mise in difficoltà molte famiglie, qualcuna perse persino la propria casa, per la sua malvagità, e le sue cervellotiche decisioni, e ancora quelle persone lo maledicono con tutte le loro forze.
Eppure lui, in quel contesto, vi sembrerà strano, non è la persona più negativa, quello che manca a lui in fatto di ragionamenti corretti e scelte, lo possiede in sovrabbondanza la matrigna cattiva che lo domina con non si sa quali poteri nascosti.
Lei è una vecchiaccia maledetta, emana il suo micidiale olezzo a decine di metri di distanza, e chi malauguratamente ne dovesse subire l'odore, sta male per settimane intere, è per questo che si fa il vuoto intorno a lei.
E' completamente calva, e risolse il problema facendosi confezionare una parrucca con quei filamenti caduti dal cielo, qualcuno asserisce che la sua immensa malvagità viene esaltata da quei capelli posticci.
Anche la sua personalità viene definita posticcia, semina dovunque passi, negatività e malesseri vari, la gente con cui viene in contatto soffre per giorni e giorni di terribili mal di pancia, che li costringono in bagno in continuazione, annebbia i cervelli, e rende ebeti chi ha deciso, forse per sua convenienza, di assecondare le sue pazzie.
Queste persone, che per loro convenienza, o non si sa per quale nascosta ragione, o perchè ne subiscono il fascino maligno, sono completamente assoggettate ad essa, del resto stare con chi dimostra una parvenza di potere, può tornare utile in centomila occasioni. 
Certo è che queste persone insulse, forse non sono completamente coscienti di essere state avvinghiate in quella rete invisibile, che la vecchiaccia costruisce per assoggettare psicologicamente cervelli non funzionanti, che sovrastano corpi spaventosamente mosci e deformi.
Si sospetta che ella abbia in qualche modo aspirato loro il poco cervello che possedevano, rendendoli così completamente ebeti, tanto da non veder dove stia la malvagità immensa di quella donna orrenda.
Tutto quello che vedono è deformato dalla realtà immaginaria che la vecchiaccia ha costruito, e confondono il male col bene, il bello col brutto.
Si racconta, e anche in questo caso non posso portare prove certe, che chiunque lei abbracciasse, moriva tra atroci sofferenze nel giro di una settimana.
Dicerie, sicuramente.
E il capo villaggio, era anche lui stesso soggetto a quella mente, e ne assecondava i voleri, distribuendo dappertutto negatività a tutto spiano.
Fatto sta che, forse perchè essa era pervasa da quell'aria maligna, che inglobava dentro di se, o forse per altre cause contingenti, che trascorse un periodo di spossatezza, e cadde malata senza più forze, le fu consigliato di compiere un lungo viaggio, alla ricerca di qualche medico in grado di curarla. 
Non si sa perchè, o forse i lettori immagineranno i motivi, il capo villaggio, non più a contatto con tanta malvagità, si incanalò in una situazione più "normale", e pian piano capì quanto male aveva fatto, e allora prese una decisione definitiva.
Aveva capito di non avere gran tempo a disposizione, e sfruttò il poco tempo per rimediare ai suoi errori, diede un tetto alle famiglie che aveva così malignamente messo in difficoltà, aiutò chi ne aveva bisogno e in qualche modo la sua coscienza venne così in qualche modo acquietata. 
Era, se non proprio felice del nuovo corso che aveva dato alla sua vita, almeno un pochino più sereno, e capì che doveva, per essere completamente in pace con se stesso, espiare le sue innumerevoli colpe.
Quando arrivò la matrigna con la notizia che ella non poteva essere curata in alcun modo, lui la abbracciò con tutte le forze, ben sapendo a cosa andava incontro.
Morirono entrambi dopo una settimana, lui, sia pur tra atroci dolori, con la coscienza a posto, lei invece con immani sofferenze, e si racconta che dal suo corpo, negli ultimissimi giorni della sua vita, si sprigionassero raggi violetti intensissimi che davano alla stanza un'aria irreale, forse erano gli ultimi sbuffi di malvagità che si dissolvevano nell'aria, mi piace pensare che in qualche modo, anche ella, sia morta, se non completamente in pace, almeno parzialmente pentita.
Testo e illustrazione di Mariano Abis







Cosa hanno in comune un seme, una stazione ferroviaria, e una costruzione nel deserto?





Nella stazione ferroviaria del mio paesino, mooolti anni fa, era tutto un brulicare di gente, c'era il capo stazione, il bigliettaio, un addetto agli
scambi dei binari, un inserviente che teneva puliti e in ordine tutti gli spazi, c'era persino un piccolo bar, con due addetti, uno preparava a tutto spiano cappuccini, l'altro panini. il bar era stracolmo di studenti e operai. Allora il servizio di trasporto pubblico era inteso come una necessità, dato che in pochi avevano un mezzo proprio per spostarsi, eravamo immersi in quella problematica e scomoda situazione che veniva chiamata civiltà contadina.
A voler essere cattivi, si poteva definire antiquata. Ma tant'è, quell'ambiente era vivo, vitale, e la gente si relazionava volentieri, e forse tutto il sistema era economicamente in perdita, ma era una risorsa per gli addetti e le loro famiglie, e di conseguenza anche per la società. Faceva bella mostra di se, in un ampio spazio verde, circondata dai fiori, una pianta plurisecolare, dei sui frutti si cibavano animali, uccelli e cristiani. E qualche seme che cadeva, inevitabilmente generava un'altra piantina. Misteri di una società contadina sorpassata e retrograda, mica come adesso.
Un bel giorno, lo stato, decise che, essendo in perdita, tutto il sistema di trasporto pubblico doveva essere alienato, ne ricavò una cospicua somma, palesemente inferiore comunque al suo reale valore. Tutto il sistema venne acquisito da una multinazionale che si occupava praticamente di tutte le realtà economiche esistenti, aveva come simbolo aziendale una bella rappresentazione di quella grande civiltà del passato che risponde al nome di civiltà egizia, rappresentava una elegante piramide dorata.
Si mise mano ad una corposa ristrutturazione di tutto il comparto, furono licenziati alcuni addetti, sostituiti da macchine, una distribuiva biglietti, un'altra li obliterava, un'altra ancora distribuiva cibi, bevande, e oggetti di uso comune. Quelle macchine erano costruite da una sua azienda consociata. Fu abbattuto l'albero, e sostituito da un altro, molto più produttivo e che generava frutti senza semi. Naturalmente proveniva da una azienda che allevava piante, e sperimentava nuove tecniche agronomiche, era anche essa una loro emanazione.
La stazione , in seguito, risultava sempre più deserta, in quanto gli operai pendolari, si accorsero che era molto più comodo viaggiare in auto, e acquistarono i loro mezzi privati, che venivano venduti a prezzi contenuti, e soprattutto a rate, naturalmente da una fabbrica di proprietà di chi aveva acquistato il servizio di trasporti, essa produceva in regime di monopolio.
Ben presto, però anche loro , si trovarono disoccupati, sostituiti da una meccanizzazione selvaggia che li aveva travolti, molti di loro non riuscirono a pagare le restanti rate delle auto acquistate, e persero persino la casa. Intanto la stazione era desolatamente deserta, solo pochi studenti la frequentavano, e i costi di gestione del trasporto era lievitati, non restava che aumentare a dismisura il prezzo del biglietto, operazione facile in regime di monopolio.
Al deserto si aggiunge deserto e disperazione, deserto e debito, e ancora debito, precarietà, disoccupazione, e ci si accorge che il debito non può essere estinto. Il deserto ha generato schiavitù, perchè un debito inestinguibile significa sottomissione completa. Quando sento voci che dicono che lo stato ha intenzione di privatizzare beni e servizi, mi vengono i brividi, capisco al volo che bisognerebbe fermare questo andazzo iniquo, per non dare loro modo di interferire sulla mia vita e sulla mia serenità.
Ho deciso di rinunciare ai trasporti, al telefonino, ho disdetto il mio contratto per la fornitura di energia elettrica, la tv è da tempo che non so cosa sia, l'unico mio legame col mondo esterno è questo aggeggio che ho di fronte, e che un'anima buona mi consente di utilizzare, fornendomi l'energia elettrica necessaria.
Ho deciso di trasformare questo deserto reale, in un'oasi, sono tornato alle origini, dall'inizio del mio viaggio, sono tornato alla bistrattata civiltà contadina, dai bisogni essenziali, ho abbandonato comportamenti che ora giudico stupidi , generati da quella condizione che dicono sia la società consumistica, ho abbandonato comportamenti fittizi.
Sono tornato al seme della nostra esistenza,, alla sintesi estrema del nostro vivere, tutto quello che è venuto dopo la civiltà rurale, società dei consumi in primis, ma anche questa disumana società dei servizi, creata solo per generare denaro in regime di nulla concorrenza, è stata, secondo me, una colossale fregatura.
Ma intorno agli spazi che utilizzo, mi accorgo che esiste un immenso deserto, spoglio di vegetazione e di umanità, ho capito che le piramidi possono dominare solo in presenza di terra bruciata, di sofferenza, di crisi infinite.
Le piramidi prosperano nel deserto, non certo in una stazione ferroviaria affollata da umanesimo e vitalità, l'albero nuovo che è stato piantato in quella stazione non ha generato altre piantine, non contiene la vita, non contiene semi, il deserto può avere molti aspetti, ma sempre deserto è, e ho capito che ogni piramide reale, virtuale o fittizia, deve essere ribaltata o abbattuta, solo così tornerà a prosperare il colore più bello che esiste, il verde della natura

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