venerdì 8 maggio 2015

Sardus Pater, forse



Sardus Pater, forse


""Preferiscono favorire la popolazione, piuttosto che pagare tasse che ritengono troppo esose. E quelle ceste, piene di pesci, pane, carne e uova, divengono sempre più leggere, con grande gioia dei piccioccheddus de crobi, i ragazzini portatori di corbulas, che li accompagnano. Senza che nessuno abbia deciso niente, il corteo di gente, sempre più numerosa, inconsciamente, si dirige verso la manifattura tabacchi, dove lavorano le sigaraie, che hanno dimostrato di essere le più decise, nel corso degli scioperi e delle manifestazioni dei giorni precedenti. Ben sapendo che gli operai della manifattura, e soprattutto le sigaraie, sono i più combattivi, e immaginando che un’agitazione così non può prescindere dalla loro presenza, alcuni drappelli di carabinieri, danno man forte alle guardie municipali, per presidiare quella zona. Vogliono impedire che il corteo, che durante il tragitto è diventato imponente, si ingrossi ancora di più, per giunta con le persone che hanno dimostrato più di tutti grande decisione e radicalismo. I dimostranti vogliono entrare nella manifattura, e le forze dell’ordine sono apposta là, proprio per contrastarli. E tra grida, fischi e imprecazioni, e qualche scaramuccia, le sigaraie sentono il gran baccano, e forzano loro stesse, il cordone dei militari. Questi reagiscono, e si verifica una sorta di piccola guerra cittadina, alcuni, da ambo le parti, restano feriti e sanguinanti. Vedere donne ferite fa infiammare definitivamente gli animi. La gente non vede più nulla, tanta è la rabbia. Pugni, urla, sassate, e fucili che vengono usati per difendersi, come bastoni, fanno si che la zona si ricopra di sangue, ma nessun colpo è stato sparato. In pochi minuti, tutta la zona viene circondata dai carabinieri accorsi nel frattempo, ma nulla possono fare contro quella marea di folla inferocita, che riesce a forzare il cordone di militari, pure molto numeroso. L’animo di Franziscu, si esaspera soprattutto alla vista del sangue femminile, a casa sua, gli hanno insegnato che una donna non va mai toccata. In una società matriarcale come quella ogliastrina, e sarda in generale, la donna è il simbolo stesso della vita, le innumerevoli dee madri rinvenute in sardegna, certificano che la donna, è la sintesi del nostro popolo, già da tempi antichissimi.  E il corteo, sempre più esasperato, tanto da potersi definire cieco, si dirige verso la stazione ferroviaria, altro simbolo del potere, accompagnata ai due lati da carabinieri e guardie municipali. Vedendo che a protezione della stazione, li attende un picchetto di fanteria, per giunta con le baionette innestate; la folla, già inferocita, diventa incontrollabile, alcuni si strappano la camicia, ed espongono il petto alle baionette dei militari, e li invitano a colpire. Partono raffiche di sassi all’indirizzo dei soldati, e si cerca di forzare le difese della stazione, gli animi sono esasperati, e la folla fa paura. E in prima fila, ancora una volta, avanzano le donne. Quella folla inferocita, dimostrando decisione, riesce a obbligare i militari a più miti consigli, e viene dato ordine di disinnestare le baionette, e lasciar passare la gente;  il pesante cancello viene aperto, e la gente si riversa così dentro la stazione. Tre militari sono feriti, e sanguinano abbondantemente, vengono medicati sul posto, e tra loro si diffonde un senso di impotenza di fronte a quella moltitudine di gente. Soprattutto i carrettieri, che vedono le ferrovie come un pericolo per la loro attività, tentano di causare i maggiori danni in stazione, ma subito la folla, si dirige verso una semoleria di cereali, poco distante, per invitare gli operai ad unirsi al corteo. Questi li attendono all’esterno dello stabilimento, e così ingrossano il pur già corposo esercito di disperati. Tutti insieme si dirigono verso il porto, e giungono ad una costruzione adibita alla riscossione delle tasse dei pescatori, un ufficio del dazio, forse il simbolo del potere più odiato dai casteddaius. Passaggio obbligato dei pescatori, di ritorno dalla loro giornata di lavoro in mare, costretti a lasciare in quel posto odioso, la quarta parte del pescato. Sempre circondata dalla fanteria e dai carabinieri, la folla entra in quella costruzione, ne fa uscire in malo modo gli impiegati, e straccia, e brucia, registri e bollette, porta fuori le suppellettili, parte delle quali, le più infiammabili, vengono bruciate all’interno dell’esattoria, parte finiscono in mare, e pochi minuti dopo la casa è avvolta dalle fiamme. In mare galleggiano, oltre che i fogli di carta, innumerevoli altri oggetti, rischiarati da quel fuoco che sta azzerando quella costruzione così invisa. Poi si dirigono verso altri casotti daziari, disseminati nella zona portuale, e danno fuoco anche ad essi. Terminata la dimostrazione che accerta senza ombra di dubbio, che lo stato è odiato, per via della distruzione dei suoi simboli, la folla si dirige ancora una volta verso un'altra espressione statale, ancora la stazione ferroviaria, decisi a distruggerla. Ma a protezione della stessa, ci sono ancora una volta, i militari, le cui fila, intanto, si sono ingrossate per via dell’arrivo di contingenti, provenienti dall’entroterra. Lo stato decide che i danni devono cessare e si pone a muso duro contro quella gente. Pure tra l’intenso vociare, e le grida di insulti verso lo stato, si sentono distintamente, lugubri e striduli, orrendamente ingombranti e forieri di disgrazie, tre squilli di tromba, che avvertono i soldati, che dovranno caricare la folla, e che questa dovrà decidere in un attimo, se resistere o disperdersi. Tre squilli di tromba nefasti e inopportuni, tre squilli che fanno capire alla gente quale sarà l’atteggiamento dello stato, verso i loro problemi. Come al solito la scelta del potere creerà morti e feriti, non c’è stata una volta, quando si sono sentiti quei tre squilli, in tutta l’isola, che la folla abbia indietreggiato, non una volta che non ci siano stati morti. In un attimo gli uni si dirigono verso gli altri, la folla non ha intenzione di indietreggiare di fronte a quell’arroganza, e tra colpi di fucile da una parte, e fitte sassaiole dall’altra, i due gruppi vengono a contatto. Urla, sangue, pugni, colpi di fucile, gemiti di feriti e le voci stridule delle sigaraie, in prima fila contro l’esercito, raffiche lugubri e irreali di mitraglia, fanno da contorno a quell’avvenimento che non sarebbe dovuto arrivare a tanto. Il momento più doloroso è arrivato, molti sono i feriti, da ambo le parti, e la piazza rossa di sangue, diventa un tetro campo di battaglia tra figli della stessa gente, che mai avrebbero voluto scontrarsi. Infatti, pur essendoci tra i fanti, ragazzi provenienti dal continente, e figli di povera gente anch’essi, molti soldati sono di origine Sarda. La piazza è ricoperta da sassi insanguinati, qua e là si vedono pozze di sangue, sangue proletario, i vetri fracassati della stazione, feriscono chi cade in terra, e si insanguinano pure essi, qualcuno raccoglie le pietre insanguinate, e le scaglia di nuovo, le urla di dolore, pure tra quel terribile frastuono, fanno rabbrividire la pelle, un carabiniere stramazza a terra, svenuto, accanto ad un manifestante, morto, col cranio fracassato da una pallottola. Un altro soldato, con un tonfo percettibile pure tra quella baraonda, cade fragorosamente a terra, poi un altro ancora, a far compagnia ad un disgraziato quanto lui, ma appartenete alla fazione opposta.""
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Questo è uno stralcio del mio romanzo Sardus Pater, ormai terminato, e al quale sto lavorando per integrarlo con alcune illustrazioni.
Perchè scrivere un romanzo?
Perchè scrivere questo romanzo?
La storia, e nella fattispecie quella sarda, è assodato, è stata scritta e raccontata dalla borghesia, più o meno illuminata.
E allora perchè non scrivere un romanzo che cerchi di vedere gli avvenimenti dalla parte, per una volta, degli oppressi?
Oltre duecento anni di storia popolare, si parte a ridosso degli anni successivi a quella straordinaria manifestazione di coinvolgimento popolare che è stata la rivoluzione francese.
Pur con i dovuti distinguo e precisazioni, riguardo a chi ha veramente perso la decisione perchè essa potesse avvenire.
La narrazione termina nei primissimi anni del millenovecento.
Il filo conduttore che lega i vari passaggi è riferibile ad una famiglia di pastori ogliastrini, e si interseca con la grande storia vissuta in quei due secoli dal popolo sardo, quello emarginato e asservito suo malgrado.
Il titolo del libro, sardus pater, è doppiamente giustificato, il termine è riferibile sia al capostipite di quella famiglia, che ad una scultura che, se veramente esiste o è esistita, ha un valore inestimabile, perchè unica al mondo, nel rappresentare il padre di tutti coloro che abitano la meravigliosa terra di sardegna.
Pezzo unico, non ne esistono altre.
Non esistono copie.
E seppure la società sarda, ineludibilmente matriarcale, ha rappresentato la dea madre in svariate forme, si suppone che la rappresentazione del sardus pater sia non replicata.
E la storia si dipana, in una sua sezione, all'interno della grande avventura che ha certificato la volontà di auto determinarsi della nostra gente.
La cacciata dei piemontesi, le interferenze francesi, la grande valenza culturale dei cantadores, autentico ed unico strumento di informazione di popolo, i soprusi di barones e istranzos, la sconcertante fine della rivolta su quel ponte sul tirso, a due passi da aristanis, che ha visto contrapporsi poveri contro oppressi, nell'etorno gioco del potere, a scapito della gente, divide et impera.
Viaggiando attraverso l'isola, mi emoziono sempre quando mi trovo in località che hanno visto la nostra storia di popolo.
Le bardane, lo spirito ribelle del popolo sardo, capace di sollevarsi contro le ingiustizie, ma mai propenso alla rivoluzione.
Il banditismo.
Su connottu.
La capacità di decidere che se non esiste possibilità che la gente si auto determini, lo si deve fare individualmente, o con l'appoggio di pochi patrioti.
Buggerru, che immensa tragedia.
La rivolta del pane di casteddu.
Un popolo affamato si ribella, cosa pretende il potere, che non si ribelli?
E poi, infine, lo squallido comportamento del potere, mai realmente a favore della gente.
Storia antica, oltre che universale. 
Perchè ho scritto questo romanzo?
Niente preamboli, niente spiegazioni macchinose, lo ho scritto per consegnare alla gente sarda una parvenza di orgoglio popolare,  per dimostrare che il potere è sempre malvagio, che quegli atti  di ribellione, oggi, si devono ripetere, che oggi, ci si deve auto determinare, punto e basta, il popolo sardo si deve liberare, capito?
Vorrei che questo romanzo fosse presente nelle case di tutti i sardi, non è vanagloria, no, è bisogno di cercare di stabilire una identità, bisogno di dare il mio modesto contributo a che ciò avvenga, senza quella scordiamoci di essere un popolo.
Farò uno sforzo economico con le mie, ahimè, miserevoli capacità economiche, ne stamperò delle copie cartacee, le distribuirò con lo scopo di diffonderlo e non di lucrare, lo ristamperò più volte se sarà necessario.
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P. S. 
IL libro è stato pubblicato in modalità self-publishing dalla casa editrice Youcanprint col titolo Istoria de Fogu e Bentu














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