venerdì 10 aprile 2015

Romanzo breve / la seconda norma di maestra




Romanzo breve / la seconda norma di maestra  


LA SECONDA NORMA DI MAESTRA

ROMANZO BREVE DI DI MARIANO ABIS

LA SECONDA NORMA DI MAESTRA



            DI 

  

MARIANO ABIS









CAPITOLO I



Non ho mai capito perché mi attirasse così tanto quel mobile nero appoggiato al muro, proprio di fronte all’ingresso; era un vecchio pianoforte che nessuno usava.

Qualche volta, mentre le suore dell’asilo erano distratte, mi avvicinavo, e mi arrampicavo sull’altissimo sgabello, aprivo con tutte le forze il pesantissimo coperchio che nascondeva quei tasti bianchi e neri, e suonavo qualche nota con le piccole e goffe dita.

Un secondo dopo, le tre suore presenti mi sgridavano in coro, avvicinandosi a me, io, seppure sopra lo sgabello, vedevo quelle enormi figure nere, che evidentemente non mi volevano bene; perché mi impedivano di suonare?











La più comprensiva era la madre superiora, ma lei non era quasi mai presente.

Allora mi rassegnavo e mi sedevo sul grande tappeto azzurro al centro della stanza, e facevo compagnia agli altri bambini, che per lo più giocavano con gli antenati delle moderne costruzioni.

Erano dei semplici pezzi di legno squadrati, non tutti erano colorati, raffiguravano una casa, un triangolo, una sfera, dei cerchi, dei cubi, c’era anche un trenino, che però doveva essere completato con altri pezzi sparsi sul tappeto.

Ciascun bimbo costruiva qualcosa, ma quelle forme non bastavano mai, e qualche volta si bisticciava per il loro possesso.

Qualche bambino piangeva, ed io, nell’impossibilità di portare a termine il mio progetto costruttivo, pensavo subito ad uno più realizzabile; già allora, come adesso, cercavo di risolvere le controversie in modo soffice, senza scontri.

Dopo aver abbandonato quel campo di battaglia, andavo verso un tavolo attorno al quale erano sistemate una dozzina di minuscole sedie, quasi sempre inutilizzate.

Gettati sul tavolo, alla rinfusa, c’erano fogli, matite e colori, e là sì, potevo dar vita al mio progetto, un po’ vago, per la verità.

E accavallavo, le une sulle altre, delle figure di tutti i colori.

Non so cosa abbia pensato una suora, quando ho disegnato un paesaggio in riva ad un fiume, con delle piante qua e là, e l’immancabile casetta, e tra il celeste del cielo, tra le nuvole, faceva la sua comparsa, come in un quadro surrealista, una serie di tasti bianchi e neri, messi là, in volo, come un aeroplano.

Chissà, avrà pensato che non avevo il cervello del tutto a posto, o che avessi una qualche ossessione.

Mi colpiva favorevolmente il suono di un altro pianoforte, che sentivo spesso dal portone della mia casa, e che veniva dall’abitazione di fronte, in cui abitava una famiglia molto legata alla mia.

Proprio di fronte al nostro portone di agricoltori, c’era un negozio di stoffe, l’unico a villasor, il titolare era un uomo dall’aspetto severo, che però, al momento opportuno, con quei suoi baffetti bianchi, sapeva rendersi simpatico, come pure sua moglie, maestra elementare.

Avevano un figlio ed una figlia, lui aiutava il padre in negozio, mentre lei abitava in continente, e faceva parte di una prestigiosa orchestra sinfonica.

Quando tornava a casa a trovare i suoi, si esercitava spesso al piano, sistemato in soggiorno.

Spesso mi trovavo in negozio, a parlare col foglio del titolare, e quando sentivo la musica, gli chiedevo se potevo andare in soggiorno a far compagnia alla sorella.

Lei, una volta terminati gli esercizi, come per premiare la mia attenzione, suonava e cantava delle canzoncine per bambini, che ricordo tutt’ora a memoria.

Accanto al pianoforte faceva bella mostra di sé un oggetto che ben poche famiglie al mio paese possedeva a quei tempi: un televisore!

A volte mi invitavano a cena, poi tutti a seguire ”lascia o raddoppia”, io non ero propriamente un appassionato di quel programma, che però era preceduto dal “carosello”, quello sì che mi interessava.

Infatti, terminato il mio programma preferito, restavo ancora dieci minuti, poi rientravo a casa, dove mi aspettava mia madre con un grande pancione.

Mi dicevano che, a breve, sarebbe arrivato un fratellino, e io a fantasticare su cosa avrei potuto insegnargli, dall’alto della mia esperienza.

Mio padre era tutto il giorno sui campi, di mattina non riuscivo mai a vederlo, e aspettavo il suo ritorno all’imbrunire.

Appena rientrato, faceva sempre gli stessi gesti: un bacio a mia mamma, poi mi sollevava di peso, e il secondo bacio era per me.

La domenica era un giorno speciale: non più minestrone o pastasciutta, ma una buona minestra di pollo col ripieno, e, dopo averlo fatto bollire, mia madre lo metteva in forno con delle spezie.

Ciò che non mancava mai era la frutta e la verdura, così come il pane fatto in casa.

Appena sfornato era buonissimo, poi diventava sempre più secco, e lo si abbrustoliva al caminetto con un po’ d’olio e aglio, oppure con una specie di patè di olive.

E lo schioppettare delle castagne al fuoco mi metteva allegria.

I dialoghi con mio padre avvenivano fianco a fianco, soprattutto di fronte all’allegra fiamma del caminetto, quante cose mi ha insegnato al tepore di quel focolare!

La domenica era il giorno dell’assoluto riposo per lui, dedicava il suo tempo agli amici e a mia madre, che ormai era prossima a mettere al mondo il neonato, il che avvenne, come era usanza allora, in casa, con uno stuolo di donne e la levatrice, mentre i maschi erano rigorosamente tenuti fuori dalle grandi manovre.

E quando mi presentarono la stupenda sorellina, mi emozionai, e il giorno del rientro all’asilo, comunicai con gioia a tutti il lieto evento.

Dal giorno, nei miei capolavori artistici c’era quasi sempre lei.

Intanto la sorellina cresceva sempre più bella, e quando veniva a trovarci qualche parente o conoscente, ricevevo la proposta di uno scambio:

“Se mi dai la sorellina ti do una caramella”.

Stavo un po’ a pensare e concludevo che una caramella era troppo poco, almeno tre.

Non so quante volte l’ho venduta!

Da allora le amiche di mia madre non venivano mai a casa senza caramelle.

E arrivò il momento di abbandonare le suore per la maestra elementare, chissà se avrei ancora potuto disegnare, o avrei dovuto fare cose che mi piacevano meno…

Mi accompagnò mia madre, la sorellina in braccio a lei, e la mano sinistra che teneva forte la mia, e ricordo che ho fatto grosse storie, a quell’età ogni stravolgimento delle abitudini fa sempre paura, ma la maestra, una signora paffutella, coi capelli mossi, aveva un sorriso rassicurante, e non tardai a volerle bene, soprattutto quando ci permetteva di disegnare.

Però lo studio era faticoso… tutte quelle aste, e quei cerchi… e le poesie da studiare a memoria… quelle le odiavo.

Due anni dopo ho vissuto un’esperienza che ancora oggi ricordo come un incubo: era giugno, si mieteva il grano con la mietitrebbia, che non scaricava sui carrelli il grano sfuso, come si fa adesso, ma bisognava metterlo dentro dei grandi sacchi di juta, che man mano venivano legati e scaricati per terra.

Salire sulla mietitrebbia, per me, è stata una bella esperienza, ma non immaginavo cosa avrei dovuto affrontare le notti successive.

Una volta terminata la giornata di lavoro, mio padre disse che avrei dovuto restare tutta la notte, insieme a mio cugino, mio coetaneo, a far la guardia a quei sacchi per paura che venissero rubati.

Nel darci le ultime raccomandazioni, ci abbandonarono là, al buio:

“State sul carrello, perché ci sono pericoli quali serpenti, faine, volpi e cani randagi, ci vedremo domani mattina.”

Parlò così, forse per tenerci svegli, del resto, come potevamo dormire? 

Fu una notte da incubo, ogni rumore ci spaventava, ogni luce in lontananza ci metteva apprensione, e quel che più ci preoccupava non erano gli animali o gli insetti, ma i possibili ladri, ai quali non potevamo certo opporci.

La mattina successiva vedemmo arrivare mio padre con mio zio con una brutta notizia: il camion che avrebbe dovuto caricare il grano non sarebbe arrivato che fra tre o quattro giorni, va da se che avremmo dovuto affrontare altre notti in campagna, senza dormire, come la notte precedente.

Ma quella notte, e le notti successive, disfatti dal sonno, dormimmo qualche ora, a turno.

Finalmente il camion arrivò, era terminato l’incubo!

In cuor nostro, nonostante tutto, eravamo fieri dell’impresa compiuta.

Era consuetudine che i figli di agricoltori e pastori, dovessero affrontare queste prove.

I figli dei pastori correvano più rischi di noi, in quanto il loro impegno notturno non si limitava a sole cinque notti all’anno, e il rischio di furto del grano era relativamente improbabile, mentre l’abigeato è una consuetudine radicata nella mia terra.

Dopo questa iniziazione, il mondo ovattato dell’infanzia, si trasformò tutto ad un tratto, nella mia mente, in un ambiente ostile e pericoloso.

I genitori lo facevano capire molto presto ai loro figli.

Da quell’anno in poi sarei rientrato a scuola con qualche giorno di ritardo, per un’altra esperienza: la vendemmia, nonostante avessi solo otto anni, dovevo lavorare e tagliare uva; mio padre mi consegnò un paio di forbici da potare con la lama non affilata, per paura di qualche possibile incidente.

La vendemmia non mi dispiaceva, trascorrevo quelle ore serenamente in compagnia di altri bambini, e ci piaceva sentire le storie che i grandi raccontavano.

Mio padre aveva una vigna di cannonau, che produceva un vino di ottima qualità, ma volle provare un esperimento: ci fece tagliare l’uva senza raccoglierla, lasciando cadere per terra i piccoli grappoli, che sarebbero restati là, per giorni, a beneficiare del sole forte di quei giorni.

Li raccogliemmo parzialmente appassiti, e il mosto che ne ricavammo era denso e dolcissimo, ma la quantità era molto inferiore agli anni precedenti.

Al momento del primo assaggio di quel vino, volle invitare tutti i suoi amici: ne era venuto fuori un vino liquoroso dalla qualità eccezionale!

Ancora oggi, quando si parla di vino coi miei amici, immancabilmente, quando qualcuno vanta un certo vino, gli altri gli fanno notare che non può reggere il confronto col nettare prodotto quell’anno da mio padre. 

Mi trasmetteva, anno dopo anno, la sua passione per la viticoltura e l’enologia, e ancora oggi metto in pratica gli utili consigli dettati da una esperienza trasmessa dai nostri avi.

A dicembre, durante le vacanze di natale, fu incaricato dai dirigenti della cantina sociale a cui consegnavamo l’uva, di fare un giro esplorativo per capire come altre realtà vitivinicole, affrontassero i vari problemi legati alla coltivazione della vite, alla trasformazione de prodotto, e ai loro meccanismi commerciali.

Volle portare anche me, ricordo i sistemi di allevamento in atto nel sud della francia, così simili ai nostri, poi visitammo varie aziende in piemonte e in toscana.

L’altra grande passione che mi trasmise, fu il gioco degli scacchi, non era un campione, ma nel mio paese era il più forte.

Fu per me un gioco così coinvolgente, che mi impegnai a diventare sempre più bravo, e nel giro di due anni e mezzo, già vincevo qualche partita contro di lui.

Mi regalò in seguito un libro di scacchi, e con stupore notai che molti dei principi acquisiti erano antiquati, addirittura esistevano regole diverse da quelle usuali nel mio paese, al che mi dovevo scontrare con qualche occasionale avversario per portare avanti correttamente la partita, ma si sa, i Sardi sono cocciuti, e nemmeno di fronte a un libro di regole perdono l’abitudine di rinnegare le loro consuetudini.

Espressi il desiderio di partecipare ad un torneo che si sarebbe svolto nell’ambito di una festa paesana, nelle vicinanze di villasor, mi iscrissi, e durante la prima partita mi sentivo intimorito dal mio avversario, un omone grande e grosso, ma vinsi senza problemi nonostante i miei dieci anni e la mancanza di esperienza agonistica.

Vincevo continuamente, e mi portai a casa la coppa del primo classificato, nasceva così l’esigenza di partecipare alla vita di un circolo scacchistico.

Mio padre mi accompagnò in seguito all’austero circolo scacchistico di cagliari, dove persi malamente tutte le partite amichevoli giocate.

Ma ciò non mi demoralizzò, anzi mi spinse a riflettere sui miei errori, e cercare di migliorare.

Oggi esistono vari tornei giovanili federali, individuali e studenteschi a squadre, ma allora no, e dovetti rassegnarmi a partecipare ai tornei paesani.

Quando partecipavo ai tornei di cagliari, non ottenevo grandi risultati, ma portavo sempre a casa la coppa per il miglior giocatore non adulto.

Conservo ancora gelosamente una targa che recita: “Promessa oggi, certezza domani”.

Dopo aver terminato le scuole medie, il mio sogno era di iscrivermi al liceo artistico, ma fui obbligato da mio padre ad iscrivermi ad un istituto tecnico.

Di malavoglia frequentai quella scuola, ma i risultati furono pessimi, dopo tre anni mi ritirai dallo studio: trascorrevo forse più tempo fuori dalla scuola che dentro, conoscevo ogni angolo di cagliari, come pure lo studio del preside, per via delle molte note che ricevevo.

Non avrei potuto lavorare nell’azienda di mio padre perché era talmente piccola, che non mi garantiva un futuro decoroso, e dopo qualche anno decisi di attraversare il tirreno.

Tramite un conoscente di famiglia, trovai lavoro in un’azienda vitivinicola emiliana, nei colli piacentini.

Lavoravo in vigna e in cantina, e avevo a disposizione una casa rustica in azienda.

La passione ereditata da mio padre per il mondo viticolo diede i suoi frutti, e in breve il titolare mi prese a ben volere, e mi propose di diventare il suo trattorista, in modo da sostituirlo durante le sue frequenti assenze.

Avrebbe sostenuto lui le spese per il conseguimento della patente di guida, ed io accettai di buon grado.

Avrei studiato da privatista, e avrei fatto scuola guida con lui, a bordo della sua macchina, in giro per l’emilia e la romagna, consegnando vini, a volte attraversavamo il po, per rifornire vari ristoratori, suoi clienti.

Dedicavo almeno un’ora allo studio, e alla fine entrai a far parte dell’esercito più numeroso d’italia, quello dei patentati.

Mi insegnò tutti i trucchi per usare al meglio il trattore, eseguivo trasporti, arature e trattamenti anticrittogamici.

Intanto l’azienda si era ingrandita, le vendite di vino aumentarono, e lui era spesso assente, e per ogni lavoro in vigna incaricava me.

Non bastava più la sua macchina, e decise di acquistare un furgoncino usato per le consegne dei vini, potevo inoltre usarlo anche per i miei spostamenti dopo l’orario di lavoro.

Fui contento per la fiducia, e per il fatto che, avendo già deciso di acquistare un’auto, avrei per il momento risparmiato un po’ di soldi.

Mi era utile la domenica per partecipare ai vari tornei di scacchi che si svolgevano in zona.

Con un quarto d’ora a disposizione, cominciavano la mattina e terminavano la sera.

Avevo da tempo conseguito la categoria di terza nazionale in un torneo in sardegna, la stragrande maggioranza dei partecipanti era più titolata di me, ma essendo i premi distribuiti per categoria, vincevo sistematicamente nella mia fascia; i premi consistevano in salumi, formaggi, vini, miele e tanto altro, e così la mia dispensa era costantemente fornita di ogni ben di Dio.

Rientravo in sardegna due volte all’anno a trovare i miei genitori, la sorellina, e gli amici: prima della vendemmia e dopo la potatura.

Con me portavo dei vini dell’azienda, che il titolare mi dava per farli assaggiare ai miei, in particolare piaceva un vino nero chiamato “gutturnio”, molto frizzante e con soli otto gradi alcolici, ottenuto da un sapiente uvaggio che univa uva bonarda con sangiovese, e un vino bianco chiamato “ortrugo”, anch’esso leggerissimo e frizzante, ottenuto bloccando la fermentazione del mosto al momento giusto.

I miei genitori ricambiavano con una bottiglia di mirto fatto da loro.

Con gli amici Sardi c’erano in programma i nostri riti, sempre gli stessi, fino alla mia partenza, una partita a calcio, una pokerata bonaria, le visite alle cantine di ciascuno di noi, con relativo spuntino, una serie di partite a tennistavolo o a calcio balilla.

Le partite di calcio erano interminabili, quelle a carte finivano all’alba, gli scontri a biliardino o ping-pong terminavano per sfinimento.

Le visite alle cantine non si esaurivano certo alla prima, le dovevamo visitare tutte!

Era il nostro rito preferito che chiamavamo “processione”.

Tutto questo mi ricordava quand’ero giovanissimo, ma ora, che avevo diciott’anni, ero inserito già da tempo nel mondo del lavoro.

Ero l’unico ad avere la patente, mentre gli amici studiavano ancora.

Se non trovavo amici in piazza non restavo certo da solo, mi si avvicinavano persone con le quali non avevo mai scambiato una parola, in genere agricoltori, che mi facevano mille domande:

“Dove ti trovi?”

“Che lavoro svolgi?”

“Com’è la gente di là?”

“Ti trovo bene?”

Io rispondevo alle domande e ponevo la mia:

“Come va qui?”

“Qui va male”.

“La solita noia”:

“Sto pensando anch’io di andarmene”.

Ci sono agricoltori nel mio paese che hanno dieci o più ettari di vigneto, oltre ad altri terreni, e riescono a garantire a stento un futuro alla loro famiglia, mentre in emilia esistono aziende più piccole, che vanno avanti egregiamente, e riescono a garantire anche qualche posto di lavoro tutto l’anno a personale esterno.

La differenza è che loro hanno tutti una piccola cantina, e riescono a vendere tutta la produzione direttamente, mentre noi conferiamo l’uva alla cantina sociale, con risultati economici e qualitativi scadenti.

Bisogna dire però che il nostro isolamento ci penalizza.

L’umanità si è evoluta in gran parte per opera degli scambi di esperienze tra i vari popoli, e l’emarginazione ci porta a conclusioni spesso sbagliate, maturate nel corso dei secoli, mentre altrove siamo di fronte a una continua evoluzione.

Ho visto fare da noi delle operazioni sui vigneti che hanno dell’incredibile, o tralasciare lavorazioni indispensabili per la salute e la qualità delle uve.

Il pressappochismo la fa da padrone in quasi tutte le aziende, e la razionalità è spesso un termine astratto e basta.

Al mio paese esiste il decano dei potatori, tutto ciò che dice è legge, e quello che esegue è copiato da tutti.

Ma, al solo sentirlo parlare, commette errori imperdonabili.

Un giorno mi si avvicina e mi chiede informazioni sulla tecnica emiliana in viticoltura; non faccio in tempo a dire due frasi e subito mi blocca:

“Cose dell’altro mondo!”

“Noi abbiamo sempre fatto diversamente, e raccogliamo l’uva ogni anno”.

“Ma si può sapere dove sei capitato?”

E comincia ad elencare i principi basilari di una viticoltura ancorata a secoli di disinformazione e di isolamento tecnico e mentale.

Non volendomi scontrare con lui, decido di salutarlo dicendo di avere un impegno pressante, ma mi precede piantandomi in asso, là, in mezzo alla piazza!

Dall’alto dei suoi cinquant’anni di esperienza, non può certo ascoltare le assurde teorie di uno sprovveduto diciottenne!

E lo vedo, con gli amici, gesticolare, e di tanto in tanto, volgendo lo sguardo verso di me, cercare il loro appoggio.

Siamo in novembre, faccio una proposta a mio padre: avrei potato un filare della sua vigna con una tecnica nuova, e sarei tornato ad aprile, per eseguire su quel filare una potatura sul verde, operazione che da noi spesso viene trascurata, o eseguita in maniera troppo blanda.

Dopo aver visto la potatura di quel filare, mi dice che avrebbe copiato il mio sistema , consapevole di attirare su di sé le critiche feroci dei sommi sacerdoti del tempio delle vigne!

Rientro in emilia a metà novembre, mi aspetta la stagione della potatura.

Parlo ai colleghi Emiliani della mia terra, e loro mi dicono che desiderano visitarla perché nella loro immaginazione è una terra sconosciuta e ricca di particolarità, li attira soprattutto la sua natura selvaggia.

Certo, a parte qualche grossa industria petrolchimica, una parte del territorio è caratterizzato da un ambiente dove gli interventi dell’uomo sono appena visibili, ma la stragrande parte è incontaminata.

Bellezza e disgrazia della nostra terra.

Selvaggio l’ambiente e isolato il popolo.

Ambienti naturali mozzafiato, e gente a cui non viene data l’opportunità di progredire.

E i nostri politici danno il loro benestare alla costruzione di complessi industriali estranei alla nostra civiltà.

Discendenti degli antichissimi nuragici, che tante opere artistiche e costruttive ci hanno lasciato, costretti a indossare una tuta con in bella vista un logo che non proviene certo dalle nostre parti.

Ambiente, agricoltura e pastorizia violentate da vapori mai sentiti prima, che in certi posti hanno sostituito i profumi della macchia mediterranea.

Un’invasione di concetti e attrezzature che alla lunga indeboliranno la nostra unicità e la nostra cultura, è in pericolo persino la nostra consapevolezza di essere un popolo omogeneo.

Si sarebbe dovuto puntare sull’evoluzione di agricoltura e pastorizia, salvaguardando il bene più prezioso che abbiamo: la natura che fa restare a bocca aperta i visitatori, turismo e accoglienza, ma nel nostro stile, senza scopiazzature.

Mantenere l’unicità delle nostre tradizioni, e non scimmiottare un turismo di massa importato da altre realtà, che nulla hanno a che vedere con noi.

E’, in questi anni, a rischio, e non è cosa da poco, l’idea di nazione sarda.

La nostra accoglienza è proverbiale, ecco perché è necessario che un’azienda turistica agisca come se il visitatore sia ospite della famiglia e non dell’azienda che, va da sé, non deve avere dimensioni troppo grandi.

I lavori di potatura proseguono e il mio rapporto coi colleghi di lavoro è cordiale, ma tra loro non ho individuato nessuno col quale potrei stabilire un contatto umano più profondo.

La sera, dopo il lavoro, capito in un wine bar a fiorenzuola d’arda, frequentato da un gruppo di ragazze e ragazzi che giocano a scacchi; mi presento, si dimostrano accoglienti e, appena terminata la partita, mi invitano ad accomodarmi nel posto di battaglia.

Gioco tre partite veloci, vincendone due e pareggiando la terza, e vedo il loro interesse per me diventare ancora più evidente.

Tra in bicchiere di vino e una chiacchierata, mi invitano al loro circolo, il giovedì, in una struttura messa loro a disposizione dal comune, tra l’altro mi propongono di entrare a far parte della loro squadra, che in primavera avrebbe dovuto disputare il campionato italiano a squadre di promozione.

Io mi riservo di prendere una decisione in seguito, naturalmente d’ora in poi il giovedì sera l’avrei dedicato agli scacchi; per la prima volta avrei frequentato stabilmente un circolo scacchistico.

Dopo qualche giorno, al circolo, apprendo che è in programma, in una cittadina poco lontana, a fidenza, un torneo per il passaggio di categoria; sul momento faccio l’iscrizione telefonica insieme a quattro componenti il circolo.

L’idea di partecipare mi stuzzica non poco ma, egoisticamente, ho pensato che se avessi conquistato la seconda nazionale, avrei forse detto addio ai premi messi in palio nei vari tornei, relativi alla mia fascia di categoria, inoltre avrei dovuto chiedere al principale un giorno di ferie per il sabato successivo.

Ma ormai la frittata è fatta, e inizia così la mia avventura nel primo torneo federale che avrei giocato in emilia.

Pareggio la prima partita con una ragazza mia coetanea, che dava un’aria alla mia maestra elementare a cui ho sempre voluto bene; abita a castell’arquato, una bella cittadina a soli tre chilometri dall’azienda in cui lavoro.

Decidiamo di festeggiare il primo mezzo punto davanti a due caffè, in un bar lì vicino, parliamo fitto fitto di scacchi e altri argomenti.

“Io mi chiamo Emilia, e tu?”

“Josto.”

“Ma sei sicuro che tuo padre fosse sobrio quando ti ha imposto un nome del genere?” fa lei con un sorrisetto.

“Penso di no, perché, dato il fatto che ero bellissimo, sicuramente è andato in qualche cantina a festeggiare con gli amici il lieto evento!”

Botta e risposta, da buoni scacchisti.

“Nonostante tutto è un nome che suona bene, ma avrei giurato che fosse un nome brasiliano o portoghese.”

“Non saprei immaginarmi con un nome diverso.”

Salutandoci, le propongo di accompagnarla al torneo, il giorno dopo, col mio furgoncino.

“Non sono mai stata su un furgoncino, accetto volentieri.”

Il giorno dopo, di buon’ora, certamente in anticipo, partii verso Emilia.

Pensai che non avrebbe dovuto aspettarmi nemmeno un minuto, si materializzò nella mia mente il suo viso, e dopo poco tempo la vidi uscire da una casa che faceva parte di un borgo medioevale restaurato alla perfezione, e sovrastato da un fantastico castello.

E col castello alle sue spalle, immaginai che fosse una cortigiana.

Dopo qualche battuta di spirito riguardo il furgone, ci avviammo verso fidenza.

Camminavo piano, come per prolungare al massimo quel viaggio.

“Ma guidi come un vecchietto!”

Avevo voglia di dirgli il vero motivo della mia lentezza, ma risposi banalmente che eravamo in anticipo.

Una volta arrivati, proposi un caffè al solito bar, per fare la scorta di zuccheri; mi sembrò anche questa una scusa banale, il vero motivo era che volevo stare con lei il più possibile; non era quella l’impressione che avrei voluto darle, certo come sono, che le banalità non fanno parte del mio carattere, eppure ne snocciolavo una dopo l’altra con una sequenza spaventosa.

Secondo turno di gioco, puntavamo entrambi alla seconda nazionale, e stavolta non ci potevamo accontentare di un pareggio, lei vinse ma io, trovandomi di fronte a un candidato maestro, persi malamente in poche mosse.

Era molto tempo che non perdevo in quel modo, oltrettutto ciò mi screditava agli occhi di Emilia.

La invitai, date le mie scarse finanze, a consumare un panino e una birra al solito bar.

Parlammo della mia partita, compromessa da un errore banale: dovevo effettuare una mossa forte, catturando un pedone con un mio cavallo, ma lo catturai con un alfiere, invertendo le mosse.

“Vedrai che ti rifarai, nulla è perduto”, mi disse con uno dei suoi migliori sorrisi.

Aspettammo il terzo turno, seduti su una panchina di un giardinetto.

Avrei voluto parlarle dei miei progetti futuri, con lei al mio fianco, invece sfornavo, come per incanto, un mare di banalità ad un ritmo così impressionante che ripetevo tra me “questo non sono io, questo non sono io”.

Alla fine le espressi la simpatia che provavo per lei lei, che diventò seria tutto ad un tratto, non disse nulla, e restò pensierosa per un po’.

Il terzo turno vide Emila pareggiare, ed io vincere, a quel punto lei aveva due punti, e non era messa male in classifica, mentre io, con un punto e mezzo, viaggiavo nella banalità del centro classifica.

Al ritorno le chiesi, con apprensione, se potevo accompagnarla anche il sabato successivo e lei acconsentì.

Il venerdì comunicai al titolare che il giorno dopo non sarei venuto a lavoro, e, un po’ sfacciatamente, gli chiesi in prestito la sua auto lussuosa.

Mi chiese, con aria furba, se ci fosse di mezzo una ragazza, ed io annuii.

Mi rispose che poteva prestarmela la domenica.

Il sabato mattina, arrivato col rituale anticipo, aspettai Emilia con una certa impazienza, ero ansioso di vedere l’espressione del suo volto, che non era male, forse una settimana fa non era successo nulla di irrimediabile, a volte per ottenere tutto si rischia di perdere quel poco che si ha.

Si comportava come suo solito, e parlammo solo di scacchi durante il viaggio.

Un caffè e una pasta, ed eravamo pronti a tuffarci nella giostra del quarto turno.

Vinsi quella partita equilibrata, per via di un’inesattezza del mio avversario nel finale, non era facile approfittarne, ma con un gioco corretto e incisivo, senza una minima sbavatura, riuscii nell’intento; ciò mi dava fiducia e pensai che ero pronto per il salto di categoria.

Emilia pareggiò con un avversario di categoria nettamente superiore alla sua.

Soddisfatti dell’exploit, mangiammo il solito panino con appetito, nella solita panchina dei giardinetti.

Il quinto turno ci vedeva appaiati in classifica con due punti e mezzo.

Lei vinse con un seconda nazionale, mentre io avevo di fronte una prima; decisi di complicare il gioco, e arrivai al finale di partita con un certo vantaggio posizionale, non facile da sfruttare; giocando correttamente avrei conquistato un ottimo pareggio, ma immaginai una serie di mosse, scaturite da un mio possibile sacrificio, che potevano mettermi in posizione vincente, ma se avessi fatto male i calcoli, avrei perso certamente.

Pensai per venti minuti sia all’opportunità o meno di mettere a rischio il mezzo punto, sia alla mossa concreta da eseguire, e alle sue possibili conseguenze e varianti.

Realizzai che il sacrificio era corretto, e lo eseguii, ma il mio avversario non lo accettò, e questo mi mise in netto vantaggio su di lui, e alla fine conquistai un insperato punto, che mi metteva in condizioni di pensare che potevo ragionevolmente conquistare la seconda nazionale, al pari di Emilia, in quanto mancavano solo due turni alla fine del torneo.

La riaccompagnai, dandole appuntamento per la mattina successiva.

Arrivai con il macchinone, e la vidi arrivare spaesata in quanto non vedeva il furgoncino, le feci segno con i fari, e lei si avvicinò.

“Eh, ma allora non soltanto dici banalità, ma quel che è più grave è che le metti anche in pratica” disse seria.

Forse la mia non era stata una buona idea, ma ormai la frittata era fatta, mi saltò in mente di dirle una bugia, ma per fortuna lo evitai e trovai una frase non male:

“Scusa se non sono venuto col furgone, ma ti dovrai accontentare di questo trabiccolo”.

“E va bene, ma avrei preferito il furgone, in fondo finora ci ha portato fortuna!”

Aveva ragione.

Dopo la scorta di zuccheri, iniziò il penultimo turno, che mi vide di fronte a un candidato maestro, mentre Silvia giocava con un prima nazionale.

Anche stavolta decisi di complicare al massimo il gioco, altrimenti avrei avuto poche speranze di ottenere un risultato positivo.

Silvia vinse inaspettatamente la sua partita, che seguii dalla prima all’ultima mossa, in quanto giocava a fianco a me.

Il suo avversario eseguì un sacrificio di torre su un alfiere, ma lei riuscì a difendersi ordinatamente, e portò a casa un’insperata vittoria.

Con lo sguardo le feci i complimenti, e mi rituffai sulla mia complicatissima partita.

Dovetti subire un sacrificio che sembrava vincente, avevo addosso una forte tensione, la mia posizione sia scacchistica che psicologica era ormai destabilizzata, e da ogni angolo della scacchiera erano presenti potenziali minacce che avrebbero compromesso il mio re.

Pensai e ripensai, ma non trovavo soluzioni, dopo mezz’ora non avevo ancora mosso, valutai un controsacrificio immediato, ma la posizione che avrebbero assunto i miei pezzi dopo sei o sette mosse, non mi dava fiducia, e non riuscivo a vedere, in prospettiva, lo schieramento che avrebbero assunto i pezzi, ma non avevo altro, allora eseguii quella mossa, e subito mi alzai dalla sedia per fare due passi, per stemperare, ammesso che ciò fosse possibile, la tensione accumulata.

Fumai una sigaretta in una stanza apposita, scambiai due parole con Emilia, feci altri due passi, e mi avvicinai alla mia postazione di combattimento, che mi sembrava più un patibolo.

Mi accorsi che il mio avversario non aveva ancora mosso, il che mi rassicurò un poco, pensai che forse avesse visto una continuazione a me favorevole, che io non avevo valutato, oppure stesse studiando una continuazione per non lasciarmi scampo, a quel punto, avendo entrambi poco tempo a disposizione, mi sedetti per rianalizzare il tutto, e a quel punto ricevetti la proposta di patta, sgranai gli occhi, in effetti era l’ultima cosa che mi sarei aspettato, e senza pensarci troppo la accettai, in fondo avevo ottenuto un risultato prestigioso: avevo tenuto testa addirittura ad un candidato maestro!

Birra, panino e caffè consumati in allegria con Emilia che, avendo seguito le fasi complicatissime della mia partita, mi spiegava che, secondo lei, avevo perso mezzo punto, e non guadagnato, perché la vittoria era alla mia portata, ma nella mia mente c’era solo nebbia.

Mentalmente mi invitò a piazzare i vari pezzi, e a considerare una mia continuazione che non avevo valutato, improvvisamente mi resi conto che aveva ragione, ma andava bene così, dato che tale opportunità non era passata per la mia mente.

A volte, il nostro sport si nutre di sottigliezze…

Parlammo delle buone opportunità che la classifica ci forniva, lei in particolare, con i suoi quattro punti e mezzo, era seconda in classifica con altri, e poteva aspirare al podio.

La partita decisiva, (ma in un torneo sono tutte decisive…) ebbe inizio col mio avversario precedente di fronte ad Emilia, mentre io giocavo con un terza nazionale.

Con un pedone di vantaggio conquistato in apertura, portavo avanti la mia partita, evitando complicazioni, mentre lei giocò un’inusuale apertura che mise in difficoltà il suo contendente.

Le cose si mettevano bene per entrambi, io arrivai nel finale col pedone di vantaggio, che mi consentì di vincere la mia partita, mentre lei, cercando di sfruttare il vantaggio posizionale che si era conquistata, tentò in tutti i modi di vincere, con sottigliezze e tatticismi da giocatrice navigata, ma aveva di fronte un forte giocatore che, seppure in difficoltà, non cadeva nei suoi tranelli.

Alla fine si accordarono per un pareggio.

Eravamo finalmente entrambi seconde nazionali, consapevoli che non ci saremmo certo fermati a quel traguardo, in quanto avevamo tenuto testa a prime nazionali e candidati maestri.

Il sabato sera successivo, andai al suo paese con la speranza di incontrarla, ma di lei nessuna traccia; non sapevo dove cercarla in quanto, stupidamente, non le avevo mai chiesto quali posti frequentasse.

Tornai la sera dopo, e la vidi all’esterno di una birreria, in compagnia di alcuni amici ed amiche, mi avvicinai e, dopo essermi presentato, le chiesi sfacciatamente, di fronte a loro, se potesse separarsi dal suo gruppo e stare un po’ con me.

“Con che mezzo sei venuto?” mi chiese.

“Stavolta col trattore!” risposi.

“Allora la risposta è si”.

“Eh, la lezione mi è servita”.

“Vedo che impari in fretta”.

Una volta soli le confidai che ogni mio pensiero era per lei.Sono proprio cotto”.

“Vedo”.

Le proposi di trascorrere la serata in casa mia.

“Ma quanto corri…” fu la sua risposta.

Finalmente avevo abbandonato le banalità, e parlavo di cose estremamente serie.

Mi disse che non aveva intenzione di impegnarsi con nessuno, perché voleva tenere la mente sgombra per gli esami di maturità che avrebbe dovuto sostenere fra sette mesi.

Non feci storie, e mi accontentai della sua compagnia per tutta la sera, dentro di me sapevo di non esserle indifferente, ma che avrei dovuto soffrire ancora per molto tempo.

Le chiesi un appuntamento per il sabato successivo, ma lei mi disse che il sabato era dedicato agli studi, ci saremmo visti la domenica.

Il sabato successivo partecipai ad un torneo, col solito scopo di rifornire la dispensa, ma come seconda nazionale fu dura, e restai a bocca asciutta.

Il giorno dopo, di pomeriggio, andai a trovare Emilia, ma lei non arrivava.

Nel momento che decisi di fare un giro per il paese, la vidi arrivare.

“Ciao”.

“Ciao”.

“Scusa il ritardo”.

“L’importante è che sia venuta”.

“Oggi voglio sentire da te solo banalità”.

“Come?”

“Beh, hai dimostrato che, se vuoi, sai parlare anche seriamente”.

“Mi stai prendendo in giro?”

“No”.

“Ci prendiamo un caffè?”

“Si, ma non qui.”

“Ti va di andare a piacenza?”

“No, lo prendiamo a casa tua”.

“Co… come?”

“Ma va che hai capito benissimo”.

“Si, ho capito benissimo, ma non ti voglio forzare a fare nulla che tu non voglia”. 

Ricominciavo a dire castronerie!

“Tu offrimi il caffè, poi si vedrà”.

Ero confuso, decisi che assolutamente non avrei preso iniziative.

Una volta giunti a casa, preparai il miglior caffè che avessi mai fatto!

“Questo caffè merita un bacio”.

Doveva essere proprio ottimo, perché i baci furono tanti.

Poi stappai una bottiglia di gutturnio, che al momento dell’assaggio, con un milione di bollicine, sembrava il miglior champagne che fosse mai stato prodotto.

Finalmente lei era mia, la cosa migliore che avessi mai potuto desiderare!

Avrei voluto vederla ogni giorno, ma decisi di lasciarla libera di studiare.

Decidemmo di vederci il sabato sera e la domenica.

La settimana successiva, essendo la potatura agli sgoccioli, decidemmo di trinciare i tralci, preparando il terreno per le arature, nel frattempo gli altri operai avrebbero terminato la potatura.

Sentivo dentro di me un’energia che non avevo mai provato prima, allora ricordai l’impresa compiuta a soli otto anni, e mi sentivo fiero, allora come ora.

Arrivò l’estate, e i lavori continuavano a ritmo serrato, mentre Emilia si preparava per l’esame.

Aveva in mente di festeggiare l’evento con gli amici, in casa sua, se avesse avuto un buon punteggio.

Le dissi che avrei avuto piacere di presentarmi ai suoi genitori, come il suo ragazzo.

“Ogni cosa a suo tempo”.

La risposta non mi piacque gran che, era evidentemente sotto tensione.

Si diplomò con un buon voto, ma nettamente inferiore all’ottima media degli ultimi anni.

Era delusa, ma la festa si sarebbe tenuta ugualmente.

Mi presentò ai suoi genitori come un amico, alla mia faccia stupita, seguì quella dei genitori che evidentemente sapevano di noi; mi crollò il mondo addosso.

“Ho voglia di andare via!” le dissi quando restammo soli.

“Sono depressa, non so cosa voglio, sto mettendo in dubbio anche il nostro rapporto, ma non andare via adesso.”

Non sapevo come comportarmi; se starle vicino ed aiutarla a superare quel brutto momento, o assecondare il mio istinto e andare via.

Scelsi la prima soluzione, ma dopo poche settimane mi accorsi che non stava più bene con me, e non volendo certo forzare una situazione che diventava sempre più imbarazzante, cercai le parole giuste per esternarle il mio stato d’animo:

“Io voglio solo il tuo bene, decidi per il meglio per te, il meglio per me sarebbe non troncare il nostro rapporto, ma così non mi va, se mai ti venisse voglia di vedermi, sappi che sarei contentissimo, in quel caso sai dove trovarmi, io ti aspetto.”

Me ne andai con una tristezza indescrivibile.

Durante il ritorno, decisi di continuare gli studi, e qualche tempo dopo mi iscrissi al liceo artistico come privatista; avrei dovuto dare un durissimo esame per poter essere promosso alla terza classe, in quanto provenivo da un istituto tecnico, che dava una formazione ben diversa dal liceo artistico.




CAPITOLO II



La sera dopo, spesi un mezzo capitale in una libreria di parma, che vendeva libri usati, anche scolastici.

Avendo un anno di tempo, decisi di dare l’esame integrativo, e subito dopo l’esame per passare in quarta.

Oltre agli scacchi, con lo studio sui libri, si faceva pressante la passione per la grafica e per le incisioni. 

Tenendo alte le tirature, realizzai varie incisioni, che finivano in una galleria di parma, arrotondavo così il mio stipendio da contadino.

Mi dedicavo alle incisioni solo in periodi piovosi, poi lo studio, il lavoro, e mi restava poco tempo da dedicare a me stesso e agli scacchi.

Quando rientravo in sardegna, non mancavano, oltre al buon vino dell’azienda, una copia di ciascuna incisione per i miei.

Raccontai agli amici la mia breve relazione con Emilia, e loro, vedendo una sua foto, si chiedevano come avessi fatto a farmi sfuggire una così bella creatura, ed io, raccontando gli ultimi avvenimenti, rispondevo che praticamente non avevo lottato per tenerla stretta.

Mi presero bonariamente un po’ in giro:

“La cosa inspiegabile è piuttosto come tu abbia fatto a conquistarla”.

“La fortuna dei principianti!”

E tra partite a calcio e processioni, trascorrevo la mie vacanze in questa terra , che mi sembrava sempre più bella.

Abbiamo fatto una spedizione di due giorni con gli amici in ogliastra, che per me è la zona più suggestiva dell’intera isola, dal punto di vista paesaggistico, culturale e gastronomico.

Ricordo ancora una cena a base di maialetto e buon vino, nella zona del bosco di selene.

Scattai molte foto, per farle vedere ai colleghi Emiliani, che restarono affascinati da quelle bellezze selvagge.

Qualche tempo dopo, rientrato in emilia, andai dal gallerista per consegnare nuove incisioni e qualche disegno, e gli feci vedere le foto.

“Ogliastra”, mi disse, ”la conosco bene, come il resto della sardegna, in quanto ci vado ogni anno, a trascorrere qualche giorno di ferie; mi piacciono molto le zone interne, ma la tua zona mi piace meno, mi da l’impressione che sia abitata da Sardi che hanno subito l’inquinamento di altre culture.”

Era stato duro, ma non potevo dargli torto.

Parlando d’arte, mi fa osservare dei quadri realizzati da pittori meridionali, pieni di luce e colori, mentre i quadri dei pittori del nord, sono brumosi e dai contorni indefiniti, mi dice che se dipingessi, i miei quadri sarebbero una via di mezzo tra i due stili.

Al rientro a lavoro, ripresi la mia vita non certo assonnata, ma avevo degli obiettivi da raggiungere, e non potevo rilassarmi proprio ora.

Dopo tre anni ero già diplomato, era venuto il momento di fare un bilancio della mia vita: bene la maturità appena conseguita, frutto di tanti caffè per tenermi sveglio, a livello artistico ero un discreto incisore, avevo qualche cliente che possedeva la collezione completa dei miei lavori, avevo anche collaborato alla realizzazione di alcune scenografie teatrali, ho progredito anche a scacchi, diventando una buona prima nazionale, ma avevo perduto gli anni migliori per ottenere gli ambiziosi risultati a cui ambivo, sul lavoro ero considerato un buon professionista in vigna, ma avevo delle lacune in cantina; pur conoscendo i meccanismi basilari di questa complessa arte, non avevo una tecnica mia personale, che il mio datore di lavoro invece possedeva, e non mi trasmetteva, e che metteva a frutto per produrre i suoi vini così particolari.

Ogni cantiniere conserva gelosamente i suoi segreti, che comunica solo a chi è destinato a prendere il suo posto.

E poi Emilia… con lei, si, avevo fallito.

Dopo qualche anno il titolare ci comunicò di aver venduto l’azienda a una grossa compagnia, a causa di investimenti troppo azzardati, che le banche a cui era legato non avevano intenzione di appoggiare all’infinito.

Ci rassicurò dicendo che saremmo stati riassunti dai nuovi padroni, come prevedeva una clausola della vendita.

Una volta visto l’andamento della nuova gestione, avevo la netta sensazione che il capo del personale mirava solo al profitto dell’azienda, senza tenere in nessun conto dei bisogni dei dipendenti, decisi di contattare altre aziende.

Amici di famiglia mi organizzarono un colloquio di lavoro in una grande e prestigiosa azienda friulana, accettai il lavoro di trattorista, salutai i colleghi, gli amici del circolo di fiorenzuola, telefonai al gallerista dicendogli che sarei passato da lui in futuro, acquistai un’auto usata e cercai Emilia al suo paese; mi dissero che per motivi di studio si era trasferita da tempo forse in veneto, consegnai una lunga lettera per lei ai suoi genitori, ed abbandonai l’emilia con una certa tristezza.

Cormons, friuli.

Il mio arrivo avviene di sabato nella tarda mattinata, il mio conoscente mi sistema in un agriturismo gestito da lui, con la raccomandazione di cercare, senza fretta, un nuovo alloggio.

Scarico la macchina, sistemo le mie cose, e dopo aver pranzato con la sua famiglia, mi avvio, nel pomeriggio, a perlustrare la zona.

Capito per caso in un bar del centro, e vedo due signori giocare a scacchi, piuttosto bene, direi.

Chiedo il permesso di poter assistere alla partita, e al loro distratto cenno affermativo, seguo con interesse gli sviluppi del gioco.

Terminata la partita, mi chiedono se fossi Sardo, riconoscono le inconfondibili inflessioni che non ho mai perso, simili a quelle di un socio del loro circolo, proveniente dalla mia zona.

Conoscono molti Sardi che abitano nella cittadina, affidabili e grandi lavoratori.

Aspetto l’invito a giocare una partita contro uno di loro, ma, con disappunto, vedo che iniziano una nuova partita tra loro, mi spiegano dov’è il circolo scacchistico, mi dicono che posso trovarlo aperto il giovedì, e continuano la loro partita.

Un po’ indispettito, come se mi avessero snobbato, li saluto assicurando la mia presenza al circolo.

Intanto vado alla ricerca di un alloggio, tendendo l’orecchio alla ricerca di un improbabile accento sardo, niente da fare, di Sardi nemmeno l’ombra, e gli alloggi sono troppo cari per le mie tasche.

Avrei ripreso le ricerche il giorno successivo.

A cena faccio la conoscenza più approfondita dei miei conterranei, e parlo del primo approccio che ho avuto coi Friulani e con i due scacchisti.

Loro, seppure senza giustificare il loro comportamento, mi dicono che loro sono fatti così, e in fondo non sono stati scortesi, hanno un diverso tipo di accoglienza, derivata da secoli di invasioni, e vedono lo straniero come un pericolo, un po’ come noi quando subivamo le invasioni dal mare.

Faccio notare che io sono venuto dalla parte opposta, al che mi rispondono che loro considerano popoli fratelli solo i Veneti.

Tra me e me mi domando in che posto sia capitato, e lui, come se mi avesse letto nel pensiero:

“Aspetta a giudicare, se sei una persona affidabile, non tarderanno a trattarti bene.”

Mi spiega che, come noi, hanno una forte spinta autonomistica, mitigata dal benessere che sono riusciti a conquistare, anche l’amore per la loro lingua è simile al nostro, mi dice che c’è una zona, la carnia, che assomiglia per molti aspetti alla nostra barbagia.

Poi mi invita a fare un viaggio verso trieste, mare pulito a destra, e macchia mediterranea a sinistra, c’è da confondersi con la nostra isola.

Mi sento un po’ rassicurato dalle parole di Giorgio, questo è il suo nome, mentre la moglie, Serena, annuisce.

Di fronte a me siedono le figlie, entrambe graziose, e dai lineamenti sardi: Gianna e Carmen.

La più grande assomiglia alla madre, mentre Carmen al padre.

Carmen è un peperino non indifferente, mi fa cento domande, a cui rispondo volentieri, Serena mi dice che la figlia grande frequenta la quinta elementare, mentre la piccola frequenta la prima, sono entrambe nate in friuli.

Chiedo a Giorgio un suggerimento per la ricerca di un alloggio, lui mi consiglia di chiedere agli scacchisti, poi mi assicura il suo interessamento.

La domenica è dedicata alla ricerca di un cartello “affittasi”, ma la ricerca è vana.

Per cena invito la famiglia di Giorgio in pizzeria, così, per sdebitarmi parzialmente, trascorriamo una bella serata, parlando soprattutto dei Friulani.

La mattina successiva mi reco in azienda per consegnare i documenti, conosco il responsabile dell’ufficio e l’amministratore.

L’indomani faccio la conoscenza dei colleghi, trattoristi operai e cantinieri, sono oltre venti persone di ogni età e nazionalità: Friulani, Calabresi, Sloveni, Bosniaci, Rumeni, Croati, Slovacchi e Macedoni.

Mezz’europa riunita in un’unica azienda con meno di duecento ettari.

Le vigne sono molto ben tenute, danno un senso di ordine e denotano una grande professionalità in chi ci lavora e in chi le dirige.

Faccio subito amicizia con i tre Calabresi, e con un Friulano affetto da una leggera disabilità fisica e psichica: Beniamino.

Essendo la mia pelle molto scura per il sole accumulato in emilia, mi chiede di che nazionalità nord-africana fossi.

I primi giorni cerco di memorizzare tutti i nomi dei colleghi, e come mi sarei dovuto relazionare con loro, e capire chi poteva essere adatto per una frequentazione anche fuori dall’ambito lavorativo.

Arriva finalmente il giovedì sera, e faccio il mio ingresso al circolo, sono presenti tre persone che non stanno giocando, dopo le presentazioni, faccio loro sapere che sono alla ricerca di un alloggio, non mi sono di nessun aiuto, poi, all’arrivo di una quarta persona, si mettono a giocare tra loro.

Dopo un po’ arrivano altre persone, e si mettono a giocare tra loro, resto solo io e un signore anziano che, vedendo che non arrivava nessun altro, mi propone di fare una partita, vinco in poche mosse.

Di fianco a me gioca uno dei signori incontrati al bar, e mi dice che avrei giocato col vincitore.

Vince la sua partita, ma perde contro di me.

Vengo sfidato da un altro forte giocatore e, a fatica, vinco anche contro di lui; a questo punto fioccano le domande, finalmente si interessano a me!

Mi propongono di entrare a far parte della squadra che avrebbe disputato, in primavera, il campionato italiano di serie B, mi forniscono anche qualche indirizzo per poter risolvere il mio problema abitativo.

Hanno rotto il ghiaccio, così, all’improvviso, era bastato vedermi giocare a scacchi.

Sono l’unico prima nazionale del circolo, ma i due ultimi avversari hanno dimostrato di giocare alla pari con me.

Chissà se avremmo dato filo da torcere alle squadre di udine, gorizia, e soprattutto trieste, che la fa da padrona.

Il venerdì sera incontro uno dei soci del circolo, che mi propone una passeggiata verso una “frasca”, dove avrei incontrato un incaricato dalla proprietaria di vari appartamenti, gli espongo il mio problema, visitiamo un appartamento, ci mettiamo d’accordo sul canone d’affitto, e firmiamo il contratto.

E’ un appartamento datato, ma quando era nuovo faceva sicuramente una splendida figura: muri grossi, parquet, doppie finestre, tanto legno, in perfetto stile friulano, avevo inoltre la possibilità di cercare un altro inquilino per dividere le spese, dato che disponevo di due camere da letto.

La domenica effettuo il trasloco, aiutato da Giorgio, agevolato dal fatto che parte delle mie cose non erano state tolte dagli imballaggi.

Prendo possesso della casa, e ringrazio Giorgio per tutta la disponibilità che mi ha dimostrato, gli assicuro che sarei andato a trovarlo presto, ma lui mi invita alla frasca.

La frasca è una grande sala che fa parte dell’agriturismo, luogo tradizionale dei Friulani per socializzare, si possono assaggiare i vini aziendali, formaggi, salumi, olive e dolci della zona, Serena ha però integrato l’offerta con ottimi pecorini, dolci tipici sardi, e l’immancabile mirto, che va a ruba.

Sono presenti, li riconosco dall’accento, alcuni Sardi, amici di Giorgio, che mi presenta.

“Comment’andaus?” ( Come andiamo?)

“Beni, beni.” (Bene, bene.)

“Beni benìu”. ( Benvenuto.)

“E itt’è s’idea?” (Come mai qui?)

“Seu benìu po’ traballai”. (Sono qui per lavoro.)

“Ah, innoi t’as’agattai beni”. (Qui ti troverai bene.)

“Tasta su casu e su binu”. (Assaggia il formaggio e il vino.)

“Ci podis contai”. (Puoi esserne certo.)

I Sardi hanno tanti pregi, ma un grosso difetto: nella loro terra sono individualisti e chiusi a nuove conoscenze, ma fuori tendono a fare “branco”, il più numeroso possibile, e accolgono i conterranei senza stare a pensarci su troppo.

Per me l’amicizia va conquistata giorno dopo giorno, non basta un bicchiere di vino o una cena in compagnia, anche se conterranei.

A lavoro cerco di stare coi Calabresi, e con un Pugliese, arrivato subito dopo di me, mi viene da pensare che anche noi stiamo formando un branco in azienda.

Nell’ora di pausa-pranzo ci troviamo in oltre venti persone in una grande stanza, con tavoli, sedie, un frigorifero, un forno a microonde, e un distributore di caffè, il posto giusto per conoscere gli altri, e Beniamino, che sembra apprezzare la mia compagnia.

Un giorno mi racconta a grandi linee la sua storia, e mi invita a visitare la comunità in cui abita.

Tra i tanti ospiti del centro, lui è l’unico che lavora per sua scelta: avrebbe potuto star lì, in eterno, senza sacrificarsi.

Sono tutti ragazzi e giovani disabili, alcuni hanno bisogno di assistenza continua, mi accorgerò ben presto che il mio amico, là, è un leader.

Una sera arrivo alla comunità, vengo presentato come suo grande amico, e tanti si avvicinano per scambiare due parole e per raccontare la loro storia, qualcuno ha ottenuto ottimi risultati sportivi anche a livello mondiale.

Mi dicono che due ragazze suonano il pianoforte, non resto mai indifferente a quello strumento, specie se utilizzato alla perfezione, mi assicurano che suonano divinamente, un gruppo ha messo su un complessino musicale, un altro gruppo porta avanti un ottimo gruppo teatrale.

Beniamino mi invita alla festa annuale, presenti i genitori dei ragazzi, durante la quale verranno premiati gli atleti e i vari gruppi, la festa si concluderà con una colossale cena finale.

Poi mi presenta una delle giovanissime psicologhe, che è sicuramente appena laureata.

“Josto, ti presento la mia grande amica “

“Piacere, sono un collega di Beniamino”.

“Mi chiamo Laura”.

“Lavori qui?”

“Si , ma solo part-time, seguo i vari gruppi.”

“Anche il gruppo teatrale?”

“Si”,

“Allora mi propongo come scenografo”.

“Volentieri.”

E arriva il tempo della vendemmia; come i lavori finora sono stati eseguiti con ordine e razionalità, così in vendemmia regna il caos.

Caos controllato, s’intende.

Può capitare che si raccolga una varietà d’uva, e dopo due ore un’altra, viene tenuto giornalmente sotto osservazione l’evoluzione del grado zuccherino delle varie uve, che vengono raccolte esattamente nel momento migliore, tenendo anche conto dell’esigenza di realizzare i tradizionali uvaggi, di cui i Friulani sono maestri.

Chardonnais, pinot nero e grigio, sono le prime uve raccolte; diventeranno spumanti, o leggerissimi vini dalle allegre bollicine, il primo in particolare, è stato raccolto in quattro fasi differenti.

Producono ottimi vini, in una fascia di prezzi medio-alta, esportano in tutto il mondo, e hanno una fitta rete di rappresentanti.

Quasi due volte al mese, vengo chiamato a dare una mano in cantina per l’imbottigliamento, segno che le richieste sono costanti e consistenti.

Ogni anno, sotto natale, si svolge, in un ristorante di proprietà dell’azienda, una sontuosa festa, in cui sono presenti operai, impiegati e rappresentanti.

Per tutti, alla fine, ci sarà una bella confezione di una mezza dozzina di vini pregiati.

Tra me penso a quanto sia lontana questa viticoltura dalla nostra.

Anche noi abbiamo ottimi vini, ma le strategie commerciali lasciano molto a desiderare, a cominciare dai nomi impronunciabili che gli vengono dati.

Non possiamo dare la responsabilità, oggettivamente pesante, solo al nostro isolamento fisico, ma anche all’isolamento culturale e di immagine.

Molte aziende friulane hanno bisogno di rese ad ettaro molto basse, per produrre vini di qualità, mentre noi, col clima che abbiamo, potremmo ottenere la stessa qualità con rese superiori.

Inoltre da noi le aziende sono slegate tra loro, anzi, talvolta si intralciano a vicenda, mentre qui hanno imparato a “fare sistema”, e sfruttare sinergie.

La regione friuli e le camere di commercio, mettono a disposizione dei viticoltori, un esercito di professionisti preparati e motivati alla divulgazione di nuove tecniche colturali, di strategie commerciali, e di novità scientifiche in campo enologico.

Da noi ciò è solo utopia, in quanto non ci si mette nemmeno il problema, ci basta fare qualche manifestazione estiva, o partecipare a qualche rassegna continentale, e il problema è risolto.

Eppure abbiamo delle grandi potenzialità umane, che ci dovrebbero far riflettere: capita che una persona, che da noi è un “signor nessuno”, una volta saltato il tirreno o l’atlantico, ottiene riconoscimenti importanti.

La vendemmia è ancora in corso, quando improvvisamente si guasta il tempo, e per tre giorni facciamo vacanza.

Ne approfitto per andare a trovare Giorgio, anche lui in ferie forzate, e lì faccio nuove conoscenze: la famiglia di un suo amico, che abita in un paesino vicino a cormons: Adamo con la moglie Berta e i figli Sirio e Cenzo.

Mi trovo subito a mio agio con loro, Adamo è una persona particolare, dall’intelligenza pronta e dalla battuta significativa, mai banale.

Attualmente lavora presso una grande azienda che si occupa di ristrutturazioni, e ha tra i colleghi, artigiani dalle competenze più disparate: idraulici, muratori, elettricisti, piastrellisti e via discorrendo, ha la mansione di caposquadra.

Mi rendo conto ben presto di essere di fronte ad una persona dalle doti fuori dal comune, ben assecondato dalla moglie, dall’ottima accoglienza, che fa sentire l’ospite come se fosse a casa propria.

Ha capacità relazionali che mettono a proprio agio persino i Friulani, notoriamente restii a intrattenere contatti col primo venuto, e mette loro a disposizione le sue competenze, quando necessario.

Ha avuto esperienze in passato anche come cantiniere, e in bella mostra, su uno scaffale, noto vari premi enologici, ecco finalmente una persona che avrei il piacere di annoverare trai miei migliori amici. 

Il pomeriggio successivo vado alla comunità, e vengo accolto festosamente dai ragazzi, che si danno un gran da fare per trovare “il mio grande amico”.

Arriva in compagnia di Laura:

“Ciao fratello”.

“Ciao fratello”. (una nostra convenzione…) 

“Ciao Laura”.

“Ciao Josto”.

Lei mi dice che a breve sarebbero partite le prove per il nuovo spettacolo teatrale, mi consegna il copione, e mi incarica di progettare la scenografia.

Le dico che nel giro di dieci giorni avrei terminato il progetto.

Trascorro una serata rilassante con loro e i ragazzi.

L’indomani mattina, seppure con la pioggia, viene a trovarmi Beniamino, imbacuccato come un palombaro.

Mi fa vedere delle belle foto realizzate da lui, e mi dice che quella è la sua grande passione, mi fa vedere la sua macchina fotografica accessoriata da mille aggeggi, sicuramente ha speso una mezza fortuna per l’acquisto di quel po’ po’ di roba, gli propongo di realizzare un servizio fotografico, sulle varie fasi della realizzazione della scenografia.

“Va be-bene fratello”, mi dice con la sua leggera balbuzie, gli offro un mirto, che rifiuta, in quanto non può bere alcool, preferisce un caffè, che ho notato, beve in quantità industriali, come me.

“Ti piace mia cugina?” mi fa a bruciapelo.

“E chi è tua cugina?” (altra convenzione tra loro)

“E’ Laura”.

“Certo che mi piace”.

“Sono venuto ad invitarti alla festa annuale di domenica prossima”.

“Ci sarò”.

“Ci sarà anche lei”.

“Eh daje!” penso alla romana…

E’ evidente che ci avrebbe visto bene insieme.

Per la verità l’idea non era male, lei è una bellissima ragazza, con due occhi scuri profondi, alta ed elegante nei movimenti, ma con lei non c’è stato quell’impatto emotivo che avevo provato per Emilia.

Mi viene spontaneo raccontargli la storia, e il modo troppo soffice con cui ci siamo lasciati.

“Sei un mona!” mi dice, guardandomi con quegli occhi furbetti.

Lo invito a pranzo e, dopo un altro buon caffè, si riveste da palombaro, e riparte col suo motorino, sotto la pioggia, verso la comunità.

Inizio la lettura del copione, che parla di una bambola contesa tra due bambine.

Essendo evidentemente un testo rivolto ai più piccoli, scelgo elementi molto semplici e intuitivi, con colori vivaci.

Realizzo il giorno stesso tre progetti, e il mio lavoro grafico è terminato.

Il giorno dopo progetto un’incisione ispirata al testo teatrale.

Sperando che il tempo si metta al bello, manca solo una settimana alla fine della vendemmia, e devo prendere delle decisioni importanti.

La prima è la conseguenza di una voglia matta di riprendere lo studio degli scacchi, in vista di un importante torneo internazionale in jugoslavia.

La seconda è l’esigenza di vedere i miei, se, data la distanza, una o due volte all’anno.

La terza valutazione deriva da una mia antica idea, di iscrivermi all’università per studiare psicologia, una materia che mi ha sempre attirato.

Decido che avrei studiato la materia, ma solo per mio piacere personale.

La domenica è il giorno della festa in comunità, appena arrivo sento le dolcissime note di un pianoforte, suona una ragazza disabile che, non avendo l’uso delle gambe, si aiuta con uno strano meccanismo collegato alle leve inferiori del piano, che vengono pigiate coi gomiti.

Vengo rapito da quella melodia, e penso che quel che la natura gli ha tolto dalle gambe, il buon Dio glielo ha reso nelle mani.

Ricordo quanto mi attirasse quel pianoforte nella grande stanza dell’asilo, le note dolcissime della mia vicina di casa, e i miei disegni infantili dove raramente mancavano quei tasti bianchi e neri, e ancora queste note che sento mi emozionano.

Stavo conoscendo pian piano il mondo dei disabili, le sorprese non mancavano, ma non era finita qui: è la volta di un bambino autistico e della sua stupefacente memoria visiva.

Riesce a ricostruire ciò che ha visto per un attimo, siano essi una serie di numeri, lettere o forme, ed a eseguire complicati calcoli matematici.

Ci invitano poi a recarci nel piazzale, dove comincia a suonare il complessino della comunità, e a consumare un buffet.

Uno dei ragazzi disabili mi si avvicina e mi chiede se, secondo me, lui possa invitare a ballare una graziosa ragazza, forse sorella di un altro ospite del centro, si fida del mio consiglio perché sono il grande amico di Beniamino, quindi uno di loro.

Gli chiedo cosa stesse aspettando, e un attimo dopo li vedo ballare assieme.

Io intanto scambio qualche parola con Laura, Beniamino e la direttrice che, evidentemente, mi vorrebbe coinvolgere in qualche iniziativa.

Un’ora dopo si dà inizio alla premiazione degli atleti e dei vari gruppi.

Poi di nuovo musica, e la cena ricca di specialità friulane: frico, polenta, brovada, salsicce arrosto, frutta, gelati, il tutto accompagnati dai tradizionali vini friulani: tocai, ribolla, schiopettino, e infine ramandolo.

Poi un dolce tipico, la gubana, poi di nuovo musica, e di conseguenza tutti a ballare.

Il giorno dopo riprende la vendemmia, col solito caos controllato,anzi amplificato perchè le piogge hanno guastato un po’ d’uva, e passiamo da una parte all’altra del vigneto, alla ricerca delle zone più colpite dalla muffa.

Terminata la vendemmia, lavoro in cantina, poi in vigna mettiamo a posto pali e fili, in preparazione dei prossimi lavori, infine l’azienda ci concede una decina di giorni liberi.

Con Beniamino decidiamo di fare una gita a trieste, alla ricerca di un gallerista disposto a proporre le mie incisioni.

Il giorno dopo arrivo in comunità, lui mi propone la compagnia di Laura, io accetto di buon grado e partiamo.

Lei funge da cicerone, e visitiamo posti storici di battaglie della prima guerra mondiale, provo un’intensa emozione quando vedo una grande lapide dedicata alla brigata sassari, e poi un’altra ancora, quanti cognomi a me familiari sono incisi in quelle pietre!!!

Visitiamo qualche foiba, il che mi fa pensare a quanto discredito meriti la razza umana, quando compie simili atrocità.

Nel vedere poi il paesaggio verso trieste, ammetto che le parole di Giorgio erano quanto mai esatte.

Una volta giunti alla bellissima trieste, Laura mi accompagna da un gallerista, suo conoscente, che accetta di commercializzare le mie incisioni.

Visitiamo la città, che reputo una delle più belle d’italia, valichiamo il confine, dall’auto vediamo il grande porto, arriviamo a capodistria, poi un lungo giro verso le enormi grotte di postumia, forse le più estese al mondo, attraversiamo la zona di aidussina, battuta dalla bora, poi nova gorica, infine giù, nella valle dell’isonzo, ora limpidissimo, ma che immagino durante la prima guerra mondiale spruzzato di rosso, attraversiamo tolmino, facciamo sosta a caporetto, infine rientriamo in italia, verso cividale e la comunità, dove arriviamo a notte fonda.

Il giorno dopo iniziamo la costruzione della scenografia, che in tre giorni è già terminata, altri due giorni sono sufficienti a dipingerla con colori sgargianti.

A quel punto incontriamo Angelo, il ragazzo autistico, e Laura gli chiede se sarebbe disposto a realizzare un esperimento, così, tanto per giocare, alla sua disponibilità propongo io un esperimento scacchistico, pur sapendo che lui non sa giocare.

Prendo dalla macchina scacchiera e pezzi, che porto sempre con me, ne dispongo a caso una ventina, e gli chiedo se può tentare con successo di ricordare l’esatta posizione dei pezzi.

Lui osserva per un paio di minuti, dà le spalle alla scacchiera, e ricostruisce la posizione senza errori; indica anche le coordinate delle caselle vuote e il loro colore!

Un risultato stupefacente!

Chissà quanti grandi maestri di scacchi vorrebbero possedere quella memoria visiva!

Ho ancora molto tempo libero, e il giorno dopo vado a trovare la famiglia di Adamo e Berta, scopro che lui ha tanti interessi e attività, e oltre ad avere competenze in settori lavorativi diversi, riesce anche ad avere vari hobbyes, quali la lavorazione del legno, e la realizzazione di splendidi bonsai, un tipo insomma che non si fa crescere l’erba sotto i piedi!

Ha appena finito di costruire un barbecue, che inauguriamo per cena con carne arrosto.

Trascorriamo una serata stimolante, senza cadere in banalità, usuali tra persone che si conoscono appena.

Il figlio maggiore, Sirio, frequenta la terza elementare, mentre Cenzo, l’asilo

La serata termina con l’assaggio di un’ottima vernaccia sarda. 

Il giorno dopo, giovedì, faccio il pieno di benzina alla macchina in jugoslavia, a prezzi nettamente inferiori ai nostri, poi mi avvicino al circolo.

Vedendo le partite, mi accorgo che la nostra squadra è molto equilibrata, con giocatori allo stesso livello.

Frequentano il circolo anche una dozzina di bambini, in preparazione ai prossimi campionati giovanili e studenteschi.

Trovo il circolo molto ben organizzato, e composto da persone apprezzate nella cittadina, possiede una biblioteca scacchistica molto ben fornita.

Il giorno dopo assisto alle prove del gruppo teatrale della comunità: si danno un gran da fare, con una mimica molto evidente, teatro dinamico, mi viene da pensare, quasi teatro gestuale.

Hanno inserito sprazzi di danza, un ragazzo suona il flauto.

Uno spettacolo completo, se non fosse che sono assenti i faretti, che avrebbero potuto creare giochi di luce, così importanti, se si vuol fare teatro moderno, ma forse questa non è la loro filosofia…

Non credevo che un gruppo di disabili potesse realizzare uno spettacolo così dinamico, forse dovrei rivedere la scenografia, e trovare più spazi al suo interno, per agevolare i loro movimenti.

E tra teatro, scacchi, incisioni, scenografia, e studio sui libri, trascorro il tempo che ho tolto al viaggio in sardegna.

Pian piano mi accorgo di non stare male in mezzo a questo popolo, nonostante l’impatto iniziale: mi piace il loro “fasim di bessoi”, risolvono i loro problemi, senza aspettare chissà quali aiuti esterni.

Gente abituata a rimboccarsi le maniche, concreta, che ha conosciuto la miseria più nera, l’emigrazione, e ora accoglie lavoratori da tutta italia, e da mezza europa.

Hanno saputo rischiare, forti della loro posizione centrale verso l’europa, e nonostante questo, hanno mantenuto vive le loro tradizioni e la loro lingua.

Il loro “fogolar furlan” è diffuso in tutto il mondo.

Ultimi di novembre, iniziano i lavori di potatura: venti persone impegnate tutte nello stesso lavoro.

Con grandi forbici, appena acquistate, velocizziamo il lavoro, nel mio filare, faccio il grosso dei tagli, mentre Beniamino completa il lavoro.

Essendo in anticipo sui lavori, l’azienda decide di concederci una decina di giorni di pausa, non prima di invitarci alla grande cena di fine anno.

Veniamo accolti in un grande e lussuoso ristorante, suona un gruppo che fa musica jazz, arrivano piatti raffinati in quantità industriali, non mancano le specialità friulane, assaggiamo tutti i vini prodotti dall’azienda, anche i più costosi.

Il complesso cambia genere di musica, e si dà il via a un divertente karaoke.

Scopro tra i colleghi insospettate doti canore, persino gli stranieri dimostrano di conoscere alla perfezione le più classiche canzoni italiane.

Al momento di andar via ci si scambia gli auguri, e ciascuno torna a casa, qualcuno di noi barcollando.



CAPITOLO III



Due giorni dopo inizia il super-torneo in slovenia, che fa ancora parte della jugoslavia.

Sono iscritti una decina di maestri, e tre grandi maestri, tra i più forti al mondo, giocatori provenienti da tutta europa, un sudamericano, un indiano e un israeliano, due ragazze cinesi, e un’australiana.

Un torneo internazionale? No, mondiale.

Dieci turni di gioco, con due ore e mezza per ciascuno, in totale, dieci ore di gioco al giorno!

Non è facile tenere sotto controllo la tensione per qualche ora, figurarsi affrontare un impegno così severo per così lungo tempo!

La tenuta atletica di molti giocatori, a fine torneo, avrebbe deciso molte partite.

Dislocati nelle quattro pareti della grande sala, fanno bella mostra di sé, altrettanti televisori giganti, che avrebbero consentito al pubblico di seguire le quattro partite più significative.

Sono presenti in sala sessanta scacchiere, sistemate in tre lunghi tavoli.

I partecipanti sarebbero stati molti di più, ma lo spazio non sarebbe bastato.

Il mio obiettivo è conquistare il titolo di candidato maestro, ci sarei riuscito solo incontrando, e facendo punti, contro avversari più quotati di me: il sorteggio mi dà una mano mettendomi di fronte un forte maestro internazionale.

Perdo però in una trentina di mosse, senza opporre eccessiva resistenza.

Il secondo turno mi vede vincere con un prima nazionale, di non so quale paese dell’est.

Dormo tutta la notte, tranquillo, e arrivo rilassato al terzo turno.

Quella giornata sarebbe stata di grande importanza per me, ma ancora non immaginavo gli sviluppi che avrebbe avuto.

La sorte, ancora una volta, mi dà una mano, mettendomi di fronte un candidato Austriaco.

Inutile comunque giocare contro avversari titolati, è necessario anche fare punti!

La partita si incanala su schemi straconosciuti, gioco automaticamente una ventina di mosse, mentre il mio avversario non gradisce la mia apertura e perde molto tempo ad analizzare.

Do uno sguardo a uno dei televisori, e vedo che in terza scacchiera gioca, contro un grande maestro, una persona che mi sembra di conoscere, poi la telecamera effettua un primo piano su quel viso, e senza che lo volessi, mi sfugge, a voce alta, una frase:

“Che mi venga un colpo! Ma quella è Emilia…è proprio Emilia!!!”

Immediatamente due arbitri mi si avvicinano, e uno di loro, con l’indice alzato, come per darsi più importanza, mi richiama verbalmente.

Non so dire cosa abbia detto esattamente, ma la mimica era esaustiva.

Ho fretta di terminare la partita e gioco attivamente, creando pressione sull’avversario, gioco il finale con un certo vantaggio posizionale e con grande vantaggio di tempo, e vinco la partita, frettolosa stretta di mano, e mi avvicino alla scacchiera di Emilia.

Si accorge della mia presenza solo dopo un quarto d’ora.

Mi saluta con lo sguardo, così, come se fossimo senza vederci dal giorno prima.

Sulla scacchiera si trova un po’ in difficoltà, ma ristabilisce la parità posizionale, con una serie di mosse “velenose”, e ottiene il più prestigioso dei pareggi.

“Ciao bella, complimenti.”

“Ciao Josto.”

“Hai giocato proprio bene.”

“Ho migliorato un po’ nel frattempo.”

“Dove alloggi?”

“In albergo, qui in slovenia, ma abito in friuli, lontano da qui”.

“Che emozione vederti!”

“Sono contenta anch’io.”

Le dico che mi farebbe piacere farle risparmiare i soldi dell’albergo, e la invito a stare a casa mia.

Lei accetta, non sapeva che abitassi nelle vicinanze.

Le dico che ho molto pensato a lei, e non solo ai tempi successivi al nostro addio.

“Perché, c’è stato un addio?” e’ la sua sorprendente risposta.

Mi viene da balbettare qualcosa, è una sottile provocazione o un velato rimprovero?

La psicologia femminile è molto diversa dalla nostra, ne resto sempre “spiazzato”, e non riesco a dire una parola, possibile che con loro bisogni sempre saper leggere tra le righe?

Possibile che siano così complicate?

Possibile che di fronte a lei mi venga sempre da balbettare?

In quel momento mi tornano in mente i rimproveri degli amici Sardi, e la frase di Beniamino: “Sei un mona!”

Al momento non penso ad altro che riconquistarla, ma la devo smettere di balbettare.

Il quarto turno la vede giocare con un maestro, mentre io gioco con un altro candidato, col quale pareggio.

Stesso risultato per lei, che ora ha tre punti, mentre io ho due punti e mezzo.

Il torneo che sta mandando avanti lei, è certo molto più significativo del mio, avendo già incontrato avversari molto forti.

La accompagno in albergo a prendere le sue cose, e andiamo a casa; mentre preparo il divano per trascorrere la mia notte, lei mi fa desistere dall’intento, il letto a una piazza e mezzo sarebbe stato più che sufficiente per entrambi!

”Ho passato un brutto momento, e non solo per colpa tua.”

“Ma quali colpe?” protesto.

“Hai una sensibilità da rinoceronte!”

Penso che non riuscirò mai a capire le donne.

Lei era stata la mia unica donna, e la mia esperienza in materia è molto scarsa, ho, è vero tante amiche, ma nessuna finora mi ha coinvolto come lei.

Il giorno successivo ci scontriamo entrambi con un candidato, lei vince ed io pareggio.

Il sesto turno la vede giocare con il maestro internazionale, col quale ho perso la mia prima partita, hanno entrambi quattro punti, e giocano in terza scacchiera.

Io gioco con un maestro croato, sono obbligato a non perdere.

La partita di Silvia è complicatissima, come piace a lei, mentre la mia è schematica e prevedibile, ma devo essere pronto a rintuzzare le fiammate del mio avversario, che certo non si può permettere di pareggiare con un semplice prima nazionale.

La partita è agevole da portare avanti, per ora, ed ho il tempo di seguire su uno schermo, la partita di Emilia; è tutto legato a un filo, condizione favorevole al tipo di gioco preferito da lei, nel pantano che si è venuto a creare, rischia addirittura di vincere!

Non succede, la partita termina con un pari, come la mia.

Le faccio i complimenti.

“Anche io a te.”

“Stai rischiando di vincere il torneo, sei a mezzo punto dal grande maestro che guida la classifica.”

“Penso che dovrò affrontare proprio lui, domani.”

E’ la prima volta che parliamo di scacchi, dopo esserci rincontrati, mi dice di aver già ottenuto la prima norma per diventare maestra, è cioè, nella classifica delle categorie, due gradini al di sopra di me.

La serata è dedicata al racconto delle ultime esperienze, io con i miei molti impegni, lei con gli studi di psicologia all’università.

Il giorno dopo la vede impegnata ad affrontare un maestro, ha evitato, per ora il grande scontro, mentre io gioco con un candidato, vinciamo entrambi.

Ormai per lei è venuto il momento di confrontarsi con i più forti, io, con un punto in meno, navigo, per ora, nelle parti medio-alte della classifica.

Come un verdetto rimandato più volte, ma inevitabile, ora lei dovrà giocare contro il grande maestro, che fino ad allora si è dimostrato il più forte, sono entrambi imbattuti, unici tra i centoventi partecipanti.

In via del tutto eccezionale, in prossimità della partita, viene effettuata un’intervista ai due contendenti; Emilia dice di essere onorata di giocare con uno degli scacchisti più forti al mondo,

mentre lui, facendole i complimenti, dice di temere le complicazioni che lei riesce a materializzare sulla scacchiera.

Io giocherò un’importantissima partita, contro un maestro, ma non potrò fare a meno di seguire la partita in prima scacchiera, attraverso uno dei grandi televisori.

Il grande maestro, quando si presenta la possibilità, cambia quanti più pezzi possibili, per semplificare il gioco, confidando nelle sue doti a fine partita.

Io entro in una partita molto complicata, con ancora tutti i pezzi, mentre la scacchiera di Emilia diviene sempre più vuota.

Con la capacità che hanno i grandi campioni di sfruttare se pur minimi vantaggi, l’avversario di Emilia porta avanti la sua strategia, ma non è certo della vittoria, io invece, seppure soffro un po’ di pressione a centro scacchiera, per ora resisto.

Il grande maestro esegue alla fine del centro partita tutta una serie di mosse “cattive” e “velenose”, molto forti, lei si difende come può, ma alla fine, avendo visto una continuazione perdente, stringe la mano all’avversario, in segno di resa, almeno dieci mosse prima dell’eventuale fine della partita.

Il pubblico rumoreggia, come per disapprovare la resa anticipata di Emilia, ma lei sa il fatto suo, ed esce da questa partita in modo elegante.

Io riesco a pareggiare a fatica e lei, nonostante la sconfitta, ha inalterate le possibilità di conquistare la seconda norma, avendo incontrato tutti i primi in classifica, ed avendo ancora vantaggio su di loro.

Ci sono, però, in agguato, con mezzo punto di svantaggio, gli altri grandi maestri, pronti a sfruttare un suo passo falso, oppure giocarsela contro di lei se il sorteggio li avesse messi di fronte.

E il sorteggio, il giorno dopo, la mette di fronte a uno di loro: la cosa peggiore che le potesse capitare.

Io dovrò incontrare addirittura un maestro internazionale, che fino ad allora aveva giocato al di sotto della sua forza.

L’avversario di Emilia, vista la strategia vincente del precedente avversario, cambia anche lui molti pezzi, con la speranza di giocarsi tutto nel finale, ma non ha la stoffa del leader della classifica, e si deve accontentare di un pari, come del resto il mio avversario, evidentemente demotivato.

L’ultima partita ci vede in ottima posizione, in funzione dei rispettivi traguardi da raggiungere, ma è necessario un ultimo sforzo per non vanificare tutto.

Il sorteggio è benigno con noi, e ci mette a confronto due avversari non irresistibili, che fino ad allora hanno rispettivamente fatto mezzo punto in meno di noi, dobbiamo solo evitare il sorpasso, e giochiamo una partita prudente, e quando i nostri avversari, che devono giocoforza scoprirsi, per tentare il sorpasso, cercano di forzare più del dovuto il gioco, ne approfittiamo, e portiamo a casa la vittoria.

La premiazione vede Emilia ricevere la grande coppa del secondo classificato, e due buste gonfie di banconote, una come seconda assoluta, e l’altra come miglior candidata.

Me la cavo benone anch’io, con una busta come migliore prima nazionale.

Abbiamo conseguito i nostri obiettivi: seconda norma per lei, e approdo alla categoria di candidato per me.

Cena in ristorante, offre lei, poi rientro a casa, apro la busta: contiene all’incirca la metà del mio stipendio mensile, mentre le sue sono quattro volte più pesanti della mia.

Le chiedo di stare per sempre con me. 

“Vedremo” è la sua risposta.







La seconda norma

di maestra




ogni riferimento a fatti o persone realmente esistite è casuale.



questo racconto è dedicato ai miei “diddi”, Piero e Rita









































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